L'epoca del ci-sono

La fotografia è l'arte della quotidianità, ma non per via del fatto che lo strumento tecnologico è diventato veramente alla portata di tutti, nelle vesti dello smartphone che è anche una macchina fotografica, e che stando sempre in tasca consente a tutti di documentare fotograficamente ogni momento dell'esistenza. O anche soltanto di fissare testimonianza di sè ovunque e in qualsiasi momento indipendentemente dall'accadere di qualche evento particolare, il selfie, è infatti soltanto una nuda esclamazione di esistenza, sensa sostanza, non apre alcun mondo parallelo, anzi pretende di decorare questo mondo, con il suo inutile frastuono. Attraverso questa pratica così diffusa ci siamo portati dall'epoca dell'Esserci, a quella del ci-sono
Ma la foto con lo smartphone è allora davvero un "gesto fotografico"? Io credo di no. Chi fissa un'immagine al volo con il cellulare non sta veramentre fotografando, o meglio lo fa senza la consapevolezza del gesto. E' preso dall'immagine, non dall'immaginario. 

Ancora mondi paralleli

Dice Susan Sontag che la fotografia ha deplatonizzato la nostra concezione della realtà, perchè ha cancellato la differenza tra realtà e immagine, spesso le immagini sono più reali della realtà, e rendono vera una realtà, invertendo così l'ordine di priorità del platonismo. E' certamente vero ma insufficiente.
La fotografia è molto di più, essa è la cornice imposta al reale che lo trasforma in immagine, cioè gesto intenzionale di selezione; è ciò che fa sì che una traccia del reale diventa anche rappresentazione di esso, e dunque spazio di significati. Ma al contempo è l'apertura di un mondo parallelo:  quella determinata realtà presente diviene nell'è stato, una realtà quella ma altra. In quanto indice, cioè traccia del reale, come l'impronta è traccia dell'animale, la fotografia è sempre dal reale che muove, ma quel reale è nella foto e attraverso la foto (attraverso l'incorniciamento che la foto determina) anche altro da sè. Cioè appunto mondo parallelo. Ci sono molti mondi in questo mondo, la fotografia lavora per renderli visibili e percepibili.

Guardare leggere pensare

Una cosa è certa: la fotografia, pur essendo una traccia del reale, pur provenendo da esso, non è mai uno  specchio del reale. E' sempre qualcosa di molto più complesso e più problematico.
In questo senso non è sufficiente guardarla, osservarla, contemplarla, essa cioè non può esaurirsi mai nel suo valore estetico.  La foto va letta. Come scrive Graham Clarke: "più della  azione di guardare che suggerisce un riconoscere passivo, dobbiamo insistere sul nostro leggere una foto non come immagine ma come testo". Possiamo leggere dunque la fotografia, possiamo entrare nella sua grammatica, che a grandi lineee può essere sintetizzata nelle formule della bidimensionalità, nella logica dell'inquadratura, nella dialettica tempo/diaframma, nella scelta del piano di messa a fuoco, e nella creatività stessa della messa a fuoco, e poi in tutta la varietà delle pratiche di post-produzione.
Bene, una volta che si sia "letta" la fotografia secondo la grammatica del suo discorso, avremo certo molto più chiare le circostanze della venuta, e la natura del gesto fotografico, ma ancora non sarà abbastanza. Perchè resta quell'elemento residuo ineliminabile, che consiste nella natura di traccia: resta cioè da confrontarci con quel mondo senza il quale la fotografia non sarebbe mai esistita. E per farlo non basta nè guardare, nè leggere, è necessario pensare. E' l'elemento riflessivo che ci pone all'altezza del mondo, senza di esso, il rapporto con la fotografia è mancante, è parziale, è inadeguato. La fotografia deve farci pensare, è questo il suo compito. Una fotografia veramente riuscita è proprio quella che più profondamente ci investe di interrogazioni, ci costringe prendere posizione rispetto ai fatti del mondo, ci impone di essere nel mondo, in qualche modo, secondo ragioni e valori e ci richiama al nostro ruolo di nodi nella rete delle relazioni.

Mondi paralleli

Leggiamo le parole sagge e profonde di Susan Sontag: "Mallarmé diceva che al mondo tutto esiste per finire in un libro. Oggi tutto esiste per finire in una fotografia". 
E' così, oggetto della fotografia è il mondo intero, non c'è luogo, non c'è momento che non posssa essere colto nel suo nascere e nel suo morire e fermato in una fotografia. E non solo questo mondo, ma anche tutti gli altri mondi paralleli che l'occhio del fotografo o il lavoro di post-produzione possono realizzare a partire dal mondo reale. Come se si potesse moltiplicare il tutto tante volte quanti sono gli sguardi creativi degli uomini, o quante sono le possibilità di combinazione dei parametri che si offrono ormai anche al fotografo dilettante. 
La fotografia e il mondo: non un rapporto di corrispondenza (l'uno all'altra) ma di dipendenza, dal mondo che c'è a tutti i mondi paralleli che già sono in controluce in questo mondo. 
Anche il bianco e nero, in fondo, è fin da subito un mondo parallelo inserito in questo nostro mondo che abbiamo davanti agli occhi e che non conosce affatto il bianco e nero.

Dall'album al selfie

La foto familiare, la foto domestica, non è scomparsa, è essenzialmente confinata al repertorio dell'infante: documenta la venuta e la crescita dei primi anni del bambino. Ma per il resto è stata soppiantata dall'istantanea personale che non è più volta a documentare un momento importante ma anzi al contrario a rendere significativo un momento qualunque. Le foto del matrimonio e quelle del bambino sono le uniche che vanno stampate e archiviate, a documentare una storia o un evento, per tutto il resto la foto è non solo istantanea ma soprattutto effimera, fatta e pubblicata su un social, essa non contribuisce all'archivio storico nè alla narrazione di sè, perchè ha la stessa durata virtuale di un post: nasce, entra in circolazione, scompare cancellata dalla massa dei post successivi. 
Non sono più le famiglie che costruiscono la propria storia attraverso l'accumularsi di un archivio di immagini, gli album, è il singolo che si guarda, si vede, si ammira, in uno specchio comune, dove sa bene che il suo grupppo di riferimento anch'esso si vede, si guarda, si ammira. Non c'è successione narrativa, ci sono momenti destinati a durare lo spazio di uno sguardo e poi ad essere travolti dall'onda incontenibile di tutti gli altri momenti. In un caotico esplodere d'immagini come lampi in un cielo che non di meno rimane oscuro.

Etica o estetica?

La fotografia è anche testimonianza del mondo. Tuttavia essa è povera di contenuto etico, documenta ma non spiega, informa che qualcosa è avvenuto, e forse avviene , ma non è in grado di fornire spiegazioni, nè soprattutto di prendere posizione rispetto ai valori di umanità e di civiltà che il fotografo o il suo lettore  condividono o meno. 
Secondo Susan Sontag il fotografo è interessato a quel che accade nel momento in cui scatta, e lo fissa lì per sempre, e quel gesto, fissare l'attimo invece che intervenire nell'evento potrebbe addirittura renderlo complice. 
Non sarei così drastico, ma certo la fotografia documentaria conserva in sè una contraddizione irrisolta: se può essere etico documentare eventi drammatici per consegnarli all'informazione pubblica, e così sottrarli al silenzio colpevole che li copre, resta tuttavia - ecco la contraddizione - che l'effetto di denuncia è più forte se la fotografia è bella: ma la bellezza dell'immagine può sovrastare il contenuto di denuncia, il lato estetico può oscurare quello etico
E' questa  la contraddizione che resta sempre irrisolta di fronte alla grande fotografia documentaria. E' sufficiente pensare alle grandi mostre di un Capa o di un Don McCullin che viaggiano per il mondo ad esibire il talento di un fotografo, il suo coraggio, la sua capacità di cogliere l'attimo decisivo, ma che raramente sono occasione per una seria riflessione sulla follia della guerra. 

La cosa fotografia

La fotografia non è segno, nè propriamente un linguaggio: essa è prima di tutto traccia, come le orme dell'uomo sulla sabbia bagnata, come le scie dei pneumatici sull'asfalto. Un evento materiale che fissa uno spazio-tempo, lo riproduce non nella sua interezza, nè attraverso un processo di significazione, ma attraverso un oggetto, un tratto di materia che resta saturo di quel tempo, di quello spazio, di quell'evento di cui è il calco. Per questo "si impara a leggere un fotografia come si impara a leggere un'impronta o un cardiogramma."(J. Berger) Di fronte alla fotografia, dunque, possiamo ben capire che le cose spesso ci parlano, se soltanto siamo disposti a starle ad ascoltare.  Tuttavia, la"cosa" fotografia, contiene in sè anche un altro elemento, perchè essa non è mai neutrale, e non può fare a meno di rendere evidente il gesto del fotografo. Certo l'apparecchio fotografico è soltanto una macchina, ma la cosa fotografia non cessa di mostrare che attraverso quell'apparecchio uno sguardo si è reso consapevole. Questo è innanzi tutto la fotografia, uno sguardo che si mostra consapevole di sè.

Siamo tutti fotografi ?

La fotografia è entrata nella quotidianità sia in senso passivo che in senso attivo. Nel primo caso in quanto siamo di fatto bombardati da immagini fotografiche attraverso i media, ma anche negli spazi di vita, lungo le strade, nei centri commerciali, nei negozi, nelle vetrine, ecc. In senso attivo in quanto il gesto di fotografare è diventato un gesto diffuso a livello universale. Non c'è turista che non si senta in dovere di fissare in una memoria fotografica le immagini, gli eventi, le scene del suo viaggio. Il cellulare, poi, ha reso questo gesto ancora più semplice, non è più necessario avere per le mani un apparecchio fotografico, basta qualsiasi telefonino e la fotografia è fatta. Anche il non turista, d'altra parte, può fissare un momento particolare, una emozione occasionale, un incontro, o documentare un fatto, o comunicare la sua posizione, il suo essere impegnato in qualche luogo. Ma non è necessario nemmeno un evento eccezionale, nè un luogo straordinario, perchè la fotografia sotto la veste del selfie è diventata pura comunicazione esistenziale: eccomi, esisto!
In questo senso siamo tutti fotografi e la fotografia non è  più un gesto speciale, ma ha invaso il quotidiano, e ne è diventata parte integrante. Tuttavia questo uso e abuso dell'immagine reale, testimonia certo del costitutivo bisogno umano di espressione figurata, di rappresentazione, ma come accade alle monete che si svalutano, anche la fotografia così diffusa e così universalmente praticata s'impoverisce di senso, diviene un gesto comune, diviene una attività incapace tanto di esprimere il meglio come nelle pratiche artistiche apollineee, quanto di esprimere il possibile come nelle pratiche artistiche dionisiache. E precipita invece nell'indifferenza e nella neutralità delle pratiche mercantili.

Fotografia dionisiaca

La fotografia nasce per realizzare un sogno artistico, quello della fedeltà assoluta, e si serve della macchina, del dispositivo tecnico, come strumento per realizzare questo obiettivo. In questo senso la fotografia sembra quasi il frutto di un delirio meccanicista, che trova nella camera oscura il modo di ridurre il mondo a immagine con fedeltà quasi assoluta, e riducendo al minimo, al contempo l'intervento della mano umana.  
Tuttavia l'intento sostanzialmente fallisce, nel momento in cui si scopre il valore artistico dell'immagine fotografica. Quando la fotografia diviene arte a sua volta distinta dall'arte pittorica, allora appare chiaro che essa non è solo applicazione tecnica, non è una macchina che fa a meno dell'uomo per riprodurre il mondo in assoluta fedeltà, ma è un uomo che attraverso la macchina cerca di rappresentrae il mondo fermandolo: solo la fotografia - non il quadro - sa infatti bloccare e rappresentare lo spazio-tempo. E il mondo è spazio-tempo. La specificità della fotografia rispetto alla pittura consiste proprio in questo: essa contiene una - complessa - immagine dello spazio-tempo. 
Allora, mentre il quadro è apollineo perchè rilegge e riscrive il mondo intendendolo al suo meglio, la fotografia è dionisiaca perchè ha la pretesa un po' folle, un po' superba, un po' divina, di fermare lo spazio-tempo, di toccare con mano il processo che non si può fermare. 

 

Spazio e tempo

"La fotografia essenzialmente riguarda un giusto e corretto rapporto tra spazio e tempo. Tra spazialità dell'esterno e tempo di realizzazione dell'immagine." (Luigi Ghirri) Forse è il caso di chiarire meglio quesata fulminante intuizione di Ghirri: la fotografia ha a che fare con lo spazio, certo, in quanto traccia della realtà, ma al contempo non c'è spazio senza un tempo, e dunque essa ha a che fare con il tempo dell'esterno, cioè quello che fissa l'evento di cui la foto è traccia, e con il tempo dell'interno, che è quello del fotografo che quella foto ha realizzato e che è sempre parte dell'evento stesso. C'è infine un'altra sfumatura del tempo che entra in gioco nella fotografia, cioè quella legata al movimento delle cose, che impone tempi diversi nell'apparecchio fotografico per essere fissato. La foto infatti non è solo rappresentazione del mondo in condizione statica, è anche, in molte forme diverse, rappresentazione del mondo in condizione dinamica, anche se di tale dinamismo, può offrirci solo un singolo ritaglio, un frammento, un evento apparentemente strappato al flusso inarrestabile delle cose.

Il combattimento con la luce

Il fotografo in quanto artista cerca la luce, che non  è soltanto il suo mezzo, ma è prima ancora, la natura stessa della bellezza che sta cercando, la materia di cui è costituita ogni forma che egli fissa sulla pellicola.
Ma così come ogni artista cerca inutilmente l'essenza più profonda e pura della bellezza, senza mai riuscirci e replicando piuttosto l'esperienza di Orfeo, magnificamente narrata e pensata da Maurice Blanchot, allo stesso modo il fotografo che cerca la pura luce, la luce assoluta, la luce creatrice, deve poi accontentarsi di incontrarla là dove essa si deposita, cioè nei nostri oggetti quotidiani, nelle carni, nelle superfici, nelle strutture, nelle cose del mondo. 
E' così che tutta la sua ricerca si sviluppa e si conclude nelle cose stesse, nelle cose reali, quelle che ha di fronte a sè, quelle che lo circondano, quelle di cui si circonda, è in esse che la luce si fa viva, è solo in esse che la luce si fa visibile, facendosi ombra di se stessa, essa appare nel momento in cui nasconde nella materia stessa. Il combattimento tra il fotografo e la luce avviene su un unico campo di battaglia, le cose. 

Il linguaggio degli eventi

La fotografia ha a che fare con il tempo tanto quanto con lo spazio. Anzi, rende esplicito il rapporto con lo spazio-tempo. Non si tratta solo di stabilire quale porzione del mondo fotografo, ma si tratta anche di fissare il momento in cui ciò accade. 
La fotografia isola e preserva un istante sottratto così - in parte - al divenire. 
"In parte", perchè anche la foto è materia, e quindi in quanto tale soggetta al tempo. Da questo punto di vista, dunque ha perfettamente ragione Berger quando dice che "il linguaggio della fotografia è quello degli eventi", purchè si precisi, che di due eventi stiamo parlando: quello che coglie l'azione, la figura, l'immagine,  ciò che Cartier-Bresson chiamava l'istante decisivo, e quello dell'atto fotografico, il gesto del fotografo.  Certo si tratta dello stesso evento, ma da due prospettive diverse. La fotografia dice, in modo complesso, proprio questa articolazione.

Non si può fotografare tutto

Tutto è fotografabile, l'esperienza del fotografico ha aperto per l'uomo questa  scena del mondo in quanto esso appare interamente riproducibile, e non può sottrarsi al desiderio di rappresentazione che l'uomo ha dentro di sè. 
Tuttavia non si può fotografare tutto: la fotografia è selezione, è scelta, è scarto. "Se tutto quello che esiste fosse di continuo fotografato, nessuna fotografia avrebbe più senso", e di conseguenza, "la fotografia è il processo attraverso cui l'osservatore diventa consapevole di sè" (J. Berger). Non c'è vero fotografo, dunque se non quello che prima di scattare ha pensato, che prima di osservare ha vissuto, che prima di tutto ha preso coscienza del mondo in cui è immerso, e di quanto in esso deve ancora essere racccontato.