Fotografare Mestre


Fotografare Mestre, per esempio, non è certo come fotografare Parigi o l'America degli anni '30, è un'altra cosa, qui non c'è la complessità di un mondo vasto e vario, di una umanità plurale, in fermento, in conflitto, c'è piuttosto la ripetizione ossessiva e monotona degli edifici, c'è un solo luogo, un luogo qualunque, forse un non-luogo, i particolari sono la ripetizione del particolare, le prospettive sono la ripetizione di una prospettiva, per cui una strada si fonde con l'altra, in una linea di orizzonte comune, altezze, volumi, a est come a ovest a nord come a sud.
Eppure anche la città monotona, anche la città ripetizione, anche la città anonima ha la sua identità e non può non averla. Ma bisogna cercarla in fondo, bisogna vederla in controluce, bisogna davvero sapere che ogni spazio è un tempo e ogni tempo uno spazio, ed è questo che il fotografo deve riuscire a cogliere, altrimenti le foto si perdono nel nulla di una città senza forma.

Il fotografico e le cose

Nel panorama dei testi dedicati a una riflessione sul fotografico c'è un libro di Geoff Dyer, L'infinito istante, che rappresenta certamente un unicum, perchè coglie ed enfatizza un elemento che non è nè storico nè teorico, ovvero il fatto che la fotografia è anche rapporto con l'oggetto quotidiano. Osservando le opere dei grandi fotografi, infatti, Dyer fa emergere un legame insospettabile tra essi: il legame dell'oggetto, come elemento di richiamo, di continuità, di silenzioso rinvio dall'uno all'altro. Che si tratti del cappello, dell'ombrello o della panchina, delle scale, della fisarmonica, dei ciechi o di corpi nudi, la fotografia funge sempre e costantemente da legame di cose in senso largo. 
Certo c'è anche una fotografia di pure forme, ma è un confine, un margine estremo del fotografare, quello in cui esso diviene mezzo di un'intenzione artistica rivolta all'astratto, ma non è questa la natura del fotografico. Se la pittura può - e lo ha fatto - liberarsi del rapporto con il mondo degli oggetti rappresentando di essi solo alcune forme - colori, sensazioni tattili o visive, spazi senza nome, ecc. - la fotografia, che pure dal punto di vista tecnico è capace di questa operazione, trova molto più difficile liberarsi del rapporto con le cose. 
La fotografia resta comunque un rapporto con il mondo, in cui il mondo stesso continua ad avere un nome. Fotografare è sempre un modo per costruire una relazione con le cose, o se si vuole, per trasformare il muto oggetto in una cosa umana. 
Quel cappello, quell'ombrello, quella panchina, diventano mondo dentro l'obiettivo di un fotografo.

Fotografia apollinea?

La fotografia dimostra che all'uomo un mondo solo non basta. Essa ci mostra in ogni immagine il desiderio e il bisogno umani di creare altri mondi da questo, o meglio, di realizzare in questo mondo infiniti stati di cose, come se fossero altri mondi. 
E' la natura apollinea dell'uomo che emerge continuamente, la sua connaturata esigenza del meglio. 
Al contempo, si intende, la fotografia ci mostra anche che questo desiderio di altri mondi non può farci sfuggire al nostro destino di essere in questo e soltanto in questo. La fotografia  che rappresenta stati di cose mai realizzati prima, infatti, si concretizza sempre e comunque in un oggetto di questo mondo, perchè siamo inesorabilmente implicati, ogni gesto che punta ad uscire dal mondo, è un gesto interno al mondo.

Conoscere come vedere

La storia della fotografia corrisponde in modo straordinario, e inquietante, alla storia del nostro modo di vedere il mondo. Da questo punto di vista possiamo affermare con certezza che il secondo dopoguerra rappresenta una svolta fondamentale e che tale passaggio è tutto perfettamente rappresentato dalla vicenda dell'Agenzia Magnum, fondata nel 1947 da Robert Capa, Henri Cartier-Bresson, David Seymour, George Rodger, William Vandivert. Nello stesso momento essa rappresenta la presa di coscienza di un'attività, quella del fotografo e del fotoreporter, e l'inizio di una esplorazione del mondo. Da questo momento, attraverso le immagini la comunità umana - occidentale in modo particolare - ha cominciato a riconoscersi attraverso le proprie immagini. Se il '700 e l'800 sono  ancora i secoli del conoscere come narrare, pensiamo ai grandi racconti di viaggio, al Grand Tour, alle narrazioni di esploratori e antropologi, il '900, a partire dal secondo dopoguerra è invece il secolo del conoscere come vedere. Da questo momento in poi diventa urgente documentare visivamente lo stato del mondo, a partire dalle macerie della guerra, come appunto fa Werner Bischof - membro di Magnum fin dal 1949 -, che con mezzi di fortuna gira un'Europa devastata fissando in modo indimenticabile, non soltanto le tracce della distruzione ma anche facce e volti e sorrisi e sguardi di uomini e donne e bambini, di quegli esseri umani ai quali spetta il compito, sempre, di sopravvivere ad ogni distruzione. Di ricominciare. Ma poi l'Europa non basta più, e Bischop instancabile lo ritroviamo in Indocina, in Giappone, in India, in Sudamerica. Perchè il mondo è diventato piccolo, e non vi sono più altri mondi, ma solo questo che la grande tragedia del conflitto mondiale ha definitivamente stretto in un unico destino. Un destino che è insieme tragico perchè legato ai grandi conflitti, alle tragedie, alle sofferenze e dunque mette in gioco i valori morali che ispirano la nostra convivenza, ma è anche sempre inevitabilmente estetico, perchè così siamo umani noi uomini, perchè non possiamo fare a meno di cercare il meglio in ciò che abbiamo, in ciò che siamo, e il meglio è spesso semplicemente una insieme di linee, un ritmo, un equilibrio di forme, un gioco di ombre e di luci, tutto ciò che il grande fotografo riesce a vedere e ritagliare nel mondo.
Werner Bischof morirà  a soli trentotto anni uscendo di strada sulle Ande Peruviane nel pieno della sua attività di scopritore di immagini del mondo.

 
Werner Bischof
Magnum La storia Le immagini n. 9
Hachette giugno 2018
pp. 95  € 9.99

Stati di cose

"Soltanto gli stati di cose sono fotografabili", dice Vilem Flusser, autore di una delle rare riflessioni filosofiche intorno alla filosofica. Ha ragione, secondo me, è proprio così. Alla domanda: che cosa è fotografabile bisogna rispondere: l'infinita serie degli stati di cose che compongono il mondo. Tuttavia è altresì opportuno chiarire che cosa sia uno stato di cose. Innanzi tutto non si tratta solo di oggetti contrapposti a un soggetto. Lo stato di cose non è mai una singolarità, è sempre un insieme per il semplice motivo che l'oggetto in esso contenuto è sempre un oggetto nello spazio - solo gli oggetti ideali sono sottratti al legame con la spazialità - e dunque in quanto inserito in uno spazio è parte di esso nel senso che la spazialità ne è una componente, l'oggetto in questione è l'oggetto lì, in quel determinato spazio. Non qui, non altrove, è l'oggetto che si è manifestato in quel luogo e in quel momento. Appartiene infatti allo stato di cose una connotazione  temporale che la fotografia sottolinea ed enfatizza. 
Dunque l'oggetto della fotografia è sempre un determinato punto dello spazio-tempo. Ciò che però bisogna chiarire è che questo stato di cose fuoriesce dall'incrocio di due coordinate: da un lato lo sguardo del fotografo che inquadra la realtà, cioè che apre una finestra entro cui ritaglia una porzione di mondo, e dall'altra parte, il programma della macchina, tempi, aperture, obiettivo, sensibilità ecc.... che sono ovviamente decise dal fotografo, ma sulla base delle possibilità che la macchina gli mette a disposizione. 
Da questo incrocio tra lo sguardo creativo del fotografo e il campo di possibilità aperto dalla macchina si materializza uno stato di cose, che diviene l'oggetto della fotografia. 
In questo senso, ovviamente, la fotografia non è mai neutrale, perchè compone l'intenzionalità dell'operatore, con lo stato di cose che gli riesce di cogliere, e che rappresenta sempre non un singolo oggetto sottratto al mondo, ma piuttosto una porzione del mondo stesso, il quale resta lì alle spalle di qualsiasi immagine.