Infinite tracce


Sia la pittura che la fotografia sono bidimensionali mentre la realtà è tridimensionale. Entrambe da questo punto di vista mentono. Eppure, nella pittura, questo è certo, non c’è mai nulla di più di ciò che il pittore vi ha messo. Sappiamo, vedendo il cavallo di lato che esso ha solo due gambe, che l’altra parte del cavallo non la vediamo non perché è nascosta alla vista ma semplicemente perché non c’è, e deve essere ricostruita, a noi piacendo, dalla nostra immaginazione generosa. Nessuno l’ha disegnata. Nella fotografia, invece, c’è sempre molto più di ciò che appare a prima vista e se vedo solo due ruote dell’auto in corsa so che dall’altre pare ce ne sono altre due. Nella pittura il numero dei segni è finito, si potrebbero calcolare, sono tantissimi, certo, ma sono comunque un numero finito. Nella fotografia il numero delle tracce è infinito perché non dipende dalla trame dei segni che sono quasi infiniti, almeno fino alla minima visibilità del supporto (chimico o elettronico), ma dipende altresì dalla certezza che dietro l’immediato visibile c’è molto di più, c’è tutto il reale, tutto il mondo da cui quella scena è stata ritagliata. Dietro la sedia di Van Gogh non c’è  che la tela su cui è dipinto. Dietro la fotografia di una sedia c’è un intero mondo. Non lo vedo ma so che è lì. O almeno c’è stato.

La prima volta (fotografica)


La storia della fotografia è piena di eventi che possono essere raccolti nella categoria della “prima volta”. È interessante osservarli perché attraverso tutte queste situazione inaugurali si legge bene il senso di una profonda trasformazione indotta dal diffondersi della pratica fotografica.
Eugène Disdori dal 1854 commercializza le cartes de visite, foto multiple sulla stessa lastra, da 4 a 8, di piccole dimensioni e poco prezzo, vendute come biglietti da visita o come ritratti ad uso delle classi più povere, che non potevano permettersi un vero ritratto. È il primo indizio che vedersi riprodotto, diventare segno di se stesso, non è una cosa marginale e occasionale, ma ha a che fare con qualcosa che è dentro di noi, è nel modo in cui noi tutti costruiamo la nostra identità. Mostra inoltre che la fotografia può uscire dal quadro, può scendere dal muro – lo stesso luogo della pittura – ed entrare in uno spazio del tutto diverso: quello dell’album di famiglia, del portafoglio, del ricordo, della comunicazione, ecc. Mostra cioè l’identità propria della fotografia, diversa e lontana da quella del dipinto. La fotografia può così dimettere l’aura di unicità che il dagherrotipo ancora perpetuava, ed entrare nella sfera della quotidianità.

Nel 1854 la Ferrovia Chicago and Milwaukee Railway Co. negli Stati Uniti, richiede agli abbonati una fotografia come documento d’identità. È la prima volta, ma già è chiaro pur essendo la fotografia uno strumento giovanissimo, che essa possiede un forza testimoniale che nessun dipinto può possedere, essa può garantire l’identità stessa, perché ha un contenuto di verità che la rende prova.

Nel 1858 Nadar riesce a fotografare da un pallone frenato a 80 metri di altezza tre case del villaggio di Petit-Bicêtre nei dintorni di Parigi. È la prima volta in assoluto che l’uomo può assumere una prospettiva dall’alto in modo totalmente realistico. Prima la prospettiva a volo d’uccello era stata utilizzata in certe occasioni soprattutto per disegnare mappe di città, ma era un lavoro pittorico, molto più di fantasia che non realistico. La foto dall’altezza della mongolfiera di Nadar è invece la realtà stessa che si fa corpo da una prospettiva disumana.  Si apre un mondo del tutto nuovo, mai visto prima, solo sognato, solo immaginato.

Ancora l’inarrestabile Nadar, e sempre in quel periodo (1858) sperimenta per la prima volta la sostituzione della luce naturale con la luce artificiale (prodotta dall’elettricità o dal magnesio) nella realizzazione di fotografie in ambienti oscuri, come le fognature sotterranee e le catacombe di Parigi. Ma gestire la luce è difficile, non basta una lampada e Nadar se ne rende conto, ed allora sperimenta pannelli riflettenti di stoffa bianca e grandi specchi, insomma per la prima volta si prova a manipolare la luce, ad impastarla ad usarla come una materia prima.

Salon di Parigi 1859, per la prima volta anche se in una sede separata, ospita una serie di lavori fotografici. È in questa occasione che Baudelaire scrive la sua famosa invettiva contro la fotografia. Ma Baudelaire lamenta proprio ciò che la fotografia esalta: che la rappresentazione possa scendere al livello del quotidiano. Che si possa fare arte con un orinale, singolare anticipazione di Duchamp. O meglio, è chiaro che Duchamp ha letto Baudelaire, ma cerca di dargli ragione: se la fotografia si abbassa all’oggetto quotidiano, Duchamp (ovvero l’arte) può risollevare l’oggetto quotidiano al livello della arte, al livello dell’eccezione, dell’oggetto singolare sottratto al commercio con la vita, non funzionale, auratico.

È nello studio del noto fotografo Felix Nadar  al 35 di Boulevard des Capucines a Parigi che i pittori impressionisti tennero la loro prima esposizione nel 1874. Biglietto d’ingresso al costo di 1 franco. Guidati da Claude Monet, vi parteciparono alcuni giovani artisti rifiutati alle esposizioni ufficiali dei Salons, fra gli altri Cezanne, Degas, Pizzarro, Renoir, Sisley, Morisot. 163 le opere esposte. Ma la mostra fu sostanzialmente un fallimento di pubblico.  Il critico Loris Leroy prendendo spunto dal titolo di un’opera di Monet, Impressione. Sole nascente, intitolò la sua recensione “La mostra degli impressionisti”. Da quel momento il nome rimase impresso a tutto il gruppo di pittori impegnati in una profonda revisione del modello prospettico classico, e nella ricerca dell’impressione pura al di là della somiglianza, con un predominio del colore sul disegno. Di qui si separano le strade del realismo fotografico e della pittura, che non sente più la necessità di rappresentare il vero com’è.

Con le immagini dell’uscita degli operai da un’officina, nel 1895 la fotografia diventa cinema. È l’invenzione dei fratelli Auguste Marie e Louis Nicolas Lumière.

Tre specchi a triangolo davanti all’obiettivo: è l’ortografo di Alvin Langdon Coburn. Con questo strumento nasce la prima fotografia astratta. È il 1913. Dopo meno di un secolo di vita e di rappresentazione della vita, la fotografia prova a muoversi anche nell’altro da sé, nel suo inconscio, nella sua ombra, l’astratto. Altri tentativi seguiranno, ma avranno il solo effetto di confermare l’inesorabile natura di traccia del reale che fa della fotografia ciò che essa è.

Verso l'immagine che pensa

Si è aperto da qualche giorno presso lo Spazio Piave 67 una interessante mostra di un giovane fotografo friulano Mattia Campi, che propone un suggestivo connubio tra una foto ancora abbastanza realistica e una ricerca centrata sostanzialmente sulla didascalia, nel tentativo di costruire un legame intenso tra le sensazioni e i sentimenti prodotti dell'immagine e il pensiero che la didascalia può suggerire; immagini di vari luoghi e città vengono così presentate a partire da titoli emblematici, evocativi come: solitudine, fotografia in cammino, la ricerca del senso,  la ricerca del significato, ricerca di sicurezza, procedere della vita, attraverso le paure, insicurezza del percorso.
Il ventitreenne Mattia Campi lavora con intelligenza sulla dinamica tra immagini e parole, e in ciò dimostra l’intenzione di percorrere una via di ricerca che a me pare la più interessante e la più suggestiva per il nostro tempo, quella nella quale l'immagine non è abbandonata alle evocazioni estetiche, e ai formalismi ormai ripetitivi e stanchi, alle imitazioni di esperienze già avvenute decenni fa, ma piuttosto cerca di sperimentare il percorso dell'immagine che pensa. Forse Mattia non ha ancora completamente trovato la sua cifra creativa e di questo è seriamente consapevole, di sicuro però a mio modo di vedere, si è messo sulla strada giusta per costruire una esperienza del fotografico né banale né scontata. Un'esperienza dalla quale poter far emergere la sua particolare visione del mondo, e la densità delle sensazioni e dei sentimenti che il mondo è in grado di produrre nei suoi occhi e attraverso i suoi occhi nell'obiettivo fotografico.