Fotografi aristotelici


Il pittore è fondamentalmente un platonico, perché in definitiva ciò che fa è cercare le essenze, quelle che ritiene racchiuse nella sua creazione, quelle che crede stiano dietro ogni rappresentazione. Il fotografo invece è fondamentalmente un aristotelico perché piuttosto cerca enti, oppure realizza l’attualità degli enti. Il genere del  ritratto può essere preso come modello per misurare la distinzione. Da un lato il pittore ritrae la persona per far emergere quella che potremmo chiamare la sua anima, e che si nasconde dietro i tratti di somiglianza che non potranno mai ridare l’assoluta realtà esteriore della persona, ma forse, se il pittore è grande, potranno far emergere la vera realtà interiore di essa – appunto la sua anima, o la sua essenza.
Invece il fotografo nel momento in cui fa un ritratto prima di tutto si accerta che l’immagine corrisponda al modello, che sia nitida, che l’esposizione sia corretta, che la luce non nasconda i tratti ma li rilevi, insomma il fotografo prima di tutto, fa emergere l’ente reale, lo rende attuale, è proprio lì, è proprio Baudelaire,  non qualcun altro quello ritratto da Nadar.
Naturalmente tutta la storia della fotografia sta a mostrare come i fotografi abbiano cercato di liberarsi pian piano di questo destino aristotelico, e si siano invece sforzati di non essere meno platonici dei loro cugini pittori. Ma liberarsi di un vizio d’origine non significa che quel vizio non sia mai esistito.

La fotografia e il tempo complesso


L’apparecchio fotografico serve a fotografare il passato non il presente, perché ciò che fissa nella sua traccia è sempre  un attimo, o un secolo, prima del momento in cui l’immagine diviene comunicazione pubblica. Questo potrebbe mettere in imbarazzo ogni seria volontà di produrre documentazione cronachistica della realtà attraverso l’immagine. La foto documentaria, cioè, rischia di essere tristemente appesa a uno sguardo passato proprio nel momento in cui vorrebbe essere testimonianza del presente.  È vero, la foto, come osserva Barthes ci comunica sempre la stessa notizia: è stato, quell’oggetto, quella persona, quel fatto, è stato, lo osservo in quella immagine proprio perché è stato e non è ora. La fotografia dunque sembra sempre un passo indietro, inesorabilmente indietro rispetto al momento presente. Ma le cose non stanno esattamente così. Infatti il punto è che proprio questa osservazione dovrebbe indurci a riflettere meglio sulla nostra nozione del tempo, sull’idea ingenua delle tre dimensioni temporali separate e inconciliabili. E potrebbe farci pensare invece a una dimensione del tempo complessa in cui ogni presente è insieme anche il suo passato, quel passato dal quale il presente stesso si genera, e al contempo contiene in sé il germe del possibile futuro che da esso sgorgherà. Da questo punto di vista complesso, la fotografia resta testimone del passato, ma al contempo mostra in quel passato l’aderenza a un presente in esso contenuto e persino ogni ulteriore sviluppo futuro. Il suo potere testimoniale non ne è affatto sminuito ma anzi al contrario ne risulta enfatizzato.  Perché ogni frazione di tempo fissata dalla fotografia non è un semplice è stato, ma è piuttosto una densa miscela di ciò che è stato e nel momento in cui è stato ha costruito il presente di quel che c’è ora e in sé conteneva l’anticipazione di quel che sarebbe stato dopo. Le tre dimensioni sono fuse insieme nell’immagine fotografica, ed è difficile districarle. Ma il tempo è così. Niente di semplice.

FOTO/INDUSTRIA 2019

E' aperta fino al 24 Novembre 2019 la IV Biennale di Fotografia dell'industria e del lavoro a Bologna. Undici mostre in altrettanti luoghi sparsi nel centro della città, oltre naturalmente a innumerevoli workshop, performance e incontri. Qui darò notizia solo della parte espositiva che può interessare anche chi non è addetto ai lavori. Si tratta davvero di una bella occasione per rivedere opere che meritano sempre una riflessione. Sicuramente tra le esposizione quelle che hanno colpito me per efficacie e per forza delle immagini sono tre: la splendida rassegna del fotografo tedesco degli anni '30 Albert Rengen-Patzsch, molto citato in tutte le storie della fotografia ma poco visto soprattutto in Italia. Artefice di un bianco e nero lucido ed elegante, spoglio ed essenziale, capace di ricreare la profondità dell'ambiente rurale e operaio della Ruhr; e poi le foto del porto di Genova di Lisetta Carmi dove al contrario la presenza umana ci fa ricordare che il lavoro è anche fatica e sofferenza; e infine non si può non segnalare l'esposizione dedicata a André Kertész, uno dei grandi della cosiddetta "Fotografia umanistica", che qui però è visto in un insolito contesto americano:  due serie di immagini per gli stabilimenti Firestone e per una fabbrica di tessuti.  Non è "street" ma l'occhio del fotografo è creativo e capace di cogliere anche in una posa l'elemento geometrico, la costruzione di luci e ombre, il momento perfetto per fermare l'istante.  
Vorrei infine segnalare, l'esposizione dedicata a Luigi Ghirri, non tanto per le foto dedicate alla Ferrari  o a Costa Crociere che non sono particolarmente significative, ma, sicuramente, per la splendida location dell'esposizione: i Sotterranei di Palazzo Bentivoglio, un posto davvero suggestivo.