C’è una corrente di pensiero
attuale, per esempio Dubois, che pensa la fotografia come la rappresentazione
di un mondo possibile e non come l’essere stato di un fatto reale. In questo
senso la fotografia mostrerebbe non ciò che è stato ma ciò che è in un mondo parallelo, a-referenziale, plausibile, dotato
di una propria logica e di una propria coerenza, ma non direttamente emanato
dalla realtà fisica. L’immagine fotografica in questo senso non apparterrebbe
all’universo della referenza ma piuttosto a quello della fiction. Chi si ferma su questa ipotesi non s’accorge chiaramente
che la fotografia per il semplice fatto di essere chiamata in questo mondo, e
di non essere dunque altra cosa,
contiene in sé un legame referenziale, il che per altro non impedisce affatto
che vi siano fotografie capaci di manifestare questa intenzione funzionale,
solo che essa non cancella affatto il valore di traccia dell’immagine
fotografica, quanto piuttosto la arricchisce di un contenuto aggiuntivo. Perché
effettivamente è così, la fotografia tra le tante cose che sa fare, sa
costruire mondi paralleli, ove “parallelo” significa che sta in un legame
d’appartenenza con questo mondo, non è propriamente un altro mondo, ma questo
in una sua versione; cioè la fotografia costruisce anche mondi possibili,
dentro il mondo reale, nel momento in cui cogliendo una traccia del mondo
isolata dal resto, strappata dal legame che la rende vera, la propone come
forma o come espressione inaspettata e impensata. Il mondo parallelo che la
fotografia può costruire è sempre un mondo che si apre come evento di ciò che
ancora non è stato pensato, emergenza di un invisibile, apparizione di una possibilità. In quanto rappresentazione,
e dunque frutto del lavoro intenzionale di un agente, essa rappresenta uno
squarcio nella realtà che può prefigurare una variante di esso, cioè appunto
una possibilità.
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