Leonardo Sciascia sostiene la
tesi per il cui il Ritratto fotografico dovrebbe essere inteso come una forma
di entelechia aristotelica. Se il luogo comune a proposito del ritratto
fotografico pensa sia un modo di affidarsi alla mano altrui, invece bisogna
riconoscere che il ritratto fotografico come entelechia ci dimostra che ognuno,
in ogni punto della propria vita è colui che è alla fine della propria
esistenza. Così come Barthes riconosce la madre nella foto di una bambina di
cinque anni, e così come Agostino dice del tempo che tutte e tre le dimensioni
sono presenti simultaneamente nell’anima. Il presente della fotografia contiene
il passato di quando è stata fatta e il futuro che è venuto dopo e che la morte
magari ha concluso, perché la foto inesorabilmente, come dice Barthes, rappresenta
un “è stato”. Ed è proprio questa la sua natura di traccia del reale. Il punto
è che noi stessi fraintendiamo il reale e non ci accorgiamo che esso stesso
contiene in sé il tempo, il suo passato, il suo presente di cosa, il suo futuro
di possibilità. Ecco la fotografia, possiamo aggiungere noi, ha questo effetto
rivelativo di fare emergere la vera natura del rapporto tra le cose e il tempo, e ciò vale in modo inquietante anche
per noi esseri umani, come dimostra il ritratto fotografico.
Nulla dunque è più vicino
all’abolizione del tempo della fotografia, scrive sempre Sciascia (Scrittori e
fotografia), ma allo stesso tempo nulla è anche più lontano. È questo il
“piccolo dramma metafisico” che ogni fotografia e in particolare quella di
ritratto conserva in sé.
Perché la fotografia è appunto
una guerra contro il tempo, persino più efficace di quella rappresentata da
storia e romanzo. Ma è una guerra che la fotografia è destinata a perdere.