Figura della realtà


Ad oggi i fotografi hanno puntato i loro obiettivi:
-  sul paesaggio, sulla città, sull’architettura
- sul volto, sulla persona per realizzare il ritratto del singolo o del gruppo, sulle persone catturate nella vita reale o collocate in posa
- sulle forme, sui colori, sui dettagli come astrazione artistica del reale.
Ora si tratta di recuperare tutte queste possibilità – altre non ve ne sono – spingendole verso un percorso di riflessione: rappresentare per riflettere, oppure riflettere attraverso la rappresentazione. Non che i grandi fotografi non l’abbiano sempre fatto, intendiamoci, Cartier-Bresson o Luigi Ghirri questo hanno realizzato: hanno usato la rappresentazione per riflettere sul mondo circostante, ma si è sempre trattato di una riflessione muta, più di un grido d’angoscia (Diane Arbus, molta fotografia americana) inarticolato, che non di una riflessione compiuta.
La filosofia per la sua stessa natura non può accontentarsi del grido, della percezione, della silenziosa emozione di fronte all’immagine, ha bisogno di trasformare l’immagine in una figura. Cioè in una occasione di pensiero. La fotografia può tornare ad essere figura della realtà, e dunque occasione per uno sguardo critico, per una riflessione intorno alle sue ragion e ai suoi torti, intorno ai nostri sogni di uomini di questo tempo, intorno a questo tempo e questo spazio entro cui costruiamo le nostre esistenze. C’è molto da fotografare.

Per una fotografia filosofica

Ci sono molti modi di intendere la fotografia, e anche di viverla come oggi accade nella vita di tutti i giorni, dal momento che non si tratta più di una pratica esclusiva limitata ad alcuni professionisti, tecnici o artisti, ma di una pratica diffusa ad ogni livello. In questo senso le motivazioni e gli obiettivi di chi fotografa possono essere molti e diversi, per ricordare un momento, per documentare, per esporsi pubblicamente, per dimostrare di esserci, per fare parte di una comunità, ecc.
Naturalmente ci sono ancora le motivazioni più elevate, quelle dei professionisti, che però possono essere distinti abbastanza facilmente in poche categorie:
- coloro che fotografano per ragioni inerenti al mondo dell’informazione, del giornalismo, dell’editoria; e si collocano in qualche modo nel campo dell’informazione:
- coloro che fotografano con intenti artistici ma legati strettamente al dominio della fotografia stessa, e alle su istituzioni: gallerie, editoria specializzata, ecc. qui siamo nel campo della creatività; il fotografo come artista;
- coloro che usano la fotografia come mezzo per un percorso creativo; e allora qui siamo nel  campo dell’arte in senso stretto e il protagonista è prima un artista che un fotografo, un artista che usa la fotografia come potrebbe usare il video o la tela o qualsiasi altro mezzo.
È chiaro che il progetto di fotografare con una finalità filosofica non è ancora stato messo in atto. L’ipotesi di un fotografo che sia prima di tutto filosofo non ha ancora preso forma.
Precisiamo: è sempre stato possibile – anche se è stato fatto molto di rado – leggere filosoficamente le immagini fotografiche. Ma non è di questo che parlo. Intendo piuttosto alludere a un utilizzo della pratica fotografica come di una  vera  e propria pratica filosofica nel suo realizzarsi. Dal momento dell’esposizione a quello della riflessione di fronte al’immagine.  È possibile una fotografia filosofica, intesa come un’attività riflessiva sul mondo e sulla sua rappresentazione, sullo sguardo e sul punto di vista, sui mondo possibili che la fotografia inaugura. È tempo di aprire questo percorso.

Oltre la cronologia


Dice benissimo Geoff Dyer: “In fotografia non esiste un «frattempo». C’era solo quell’istante e adesso c’è quest’altro istante e nel mezzo non c’è niente. La fotografia, in un certo senso, è la negazione della cronologia.” (L’infinito istante). D’altra parte la fotografia ha questa caratteristica di essere sempre un passo indietro, non può che ripetere un ossessivo “è stato”.
Rispetto alla pittura la differenza è decisiva: ha ragione Rodin quando afferma che “è l’artista che è veritiero ed è la fotografia che mente”, certo essa pretende di fermare il tempo immobilizzandolo in un istante, l’istante che “è stato”, ma il tempo non si ferma, e la sua pretesa diventa parodia, pura illusione. E viceversa il pittore, che mente per principio, non ferma nulla, anzi se è un grande pittore, riesce a rappresentare il flusso inarrestabile, del tempo proprio perché non ferma nulla, perché nell’opera pittorica nessun istante è stato strappato al processo. Aggiunge Rodin: “Perché nella realtà il tempo non si ferma: e se l’artista riesce a produrre l’impressione del gesto che si compie in diversi istanti, la sua opera è certamente molto meno convenzionale dell’immagine scientifica [i. e. fotografica] in cui il tempo è bruscamente sospeso.”
Per dirla un po’ in termini heideggeriani, l’artista con la sua capacità di aprire, di inaugurare mondi di far emergere zone d’essere che ancora non sono del tutto presenti, si sporge piuttosto sul futuro che sul passato. Certo non può pretendere di annullare il processo vitale sezionandolo in frammenti irrelati.  Il fotografo invece è destinato proprio a questo lavoro di frantumazione: la cronologia nel senso del processo organico di sviluppo che è la nostra idea comune del tempo, viene messa in crisi dalla polverizzazione degli istanti che si fissano sull’immagine fotografica. Il fotografo magari crede di introdurre in questo modo una variante nel processo del tempo, in realtà non fa altro che evidenziarne, enfatizzarne una componente fondamentale, la ripetizione.

Riempire un vuoto

Particolari, tracce, angoli, spigoli, dettagli, laddove non c'è un senso coerente, c'è sempre la possibilità di enfatizzare un punto di vista che disorientando l'osservatore lo spinga a pensare. Fotografare una città senza forma come Mestre è difficile, la sola possibilità è quella di costruirla una forma con la sguardo, cercando l'invisibile che si nasconde dietro ogni materia. Cercando un senso anche laddove vi siano soltanto misure e la geomettria sembra voler riempire un vuoto.  Qui il senso è nell'incrocio fra cemento e cielo.

I filosofi e la fotografia

Chi si occupa oggi di teoria della fotografia? Per lo più due categorie di studiosi: quelli che si interessano dei media da un punto di vista sociologico o socio culturale, o tutt'al più antropologico - ma la differenza è solo disciplinare, non di sostanza - oppure quelli che si occupano di estetica.  In ogni caso è moltto evidente il fatto che la fotografia non si è elevata al rango di tema mertitevole di specifico trattamento filosofico, se non appunto come una sottocategoria della disciplina estetica. 
Ciò è facilmente spiegabile in effetti anche con la resistenza della filosofia ad aprire temi che non siano già stati aperti dalla classicità greca, la filosofia sconta ancor oggi il debito della sua nascita, come se ci ostinasse a voler dare ragione a Whithead per cui tutta la filosofia si risolverebbe in una infinita chiosa a Platone.  In realtà, a ben guardare, in qualche angolo, in qualche anfratto della filosofia contemporanea, qualche tentativo c'è stato di uscire da questa gabbia (Benjamin, Baudrillard, Sontag, Flusser...) ma senza riuscire a costituire un filone di ricerche omogeneo.
D'altra parte una filosofia del quotidiano come quella che qui si sostiene, appare di per sè assai poco greca e dunque non deve apparire strano che che al suo interno si prenda  in considerazione una pratica oggi così diffusa come la fotografia. Anzi si tratta proprio di un passaggio necessario.  Perchè non si tratta di una pratica qualsiasi, essa infatti nasconde piuttosto una vera e propria mutazione nel modo di vedere e quindi di vivere il mondo. Una mutazione  che una filosofia attenta non può e non deve ignorare.