Scrive Bourdieu che “la fotografia fissa un aspetto della realtà che è sempre il risultato di una selezione arbitraria e quindi di una trascrizione” (127). Lungi dunque da schiacciarsi su una forma piatta di realismo quasi meccanico, è viceversa necessario sostenere che “la fotografia è un sistema convenzionale che esprime lo spazio secondo le leggi della prospettiva (bisognerebbe precisare, di una prospettiva) e i volumi e i colori per mezzo di gradazioni dal nero al bianco.” (128)
Il fotografo comune vede attraverso l’obiettivo quel che ha imparato a vedere secondo la logica della rappresentazione che si è imposta in Europa a partire dal 1400. In questo senso “il visibile non è mai altro che il leggibile”. E dunque varia a seconda delle culture, delle tradizioni, della diversità dei mondi che ogni operatore si trova alle spalle.
Persino nella sua natura più profonda l’atto umano va oltre la semplice tecnicità. È il caso del fatto che la fotografia immobilizza il tempo congelandolo. La fotografia infatti è sempre rappresentazione dell’istante nella sua unicità e singolarità. Ebbene di fronte a questa inesorabile conseguenza tecnica, persino la fotografia popolare cerca di reagire usando inquadrature frontali e piatte (come mosaici bizantini) che offrono l’intemporalità, l’eternità immobile (esempio: gli sposi al matrimonio).
L’idea che attribuiamo alla fotografia di essere una fedele rappresentazione della realtà deriva dalla fiducia che riponiamo nell’automatismo dell’oggetto tecnico. Di qui, talvolta, anche i dubbi intorno alla sua artisticità, perché sembra superflua la mano dell’operatore. Ma ovviamente non è affatto così. Senza l amano dell’operatore la fotografia non esisterebbe. Ogni foto è la conseguenza di un atto intenzionale che ne porta quindi intera la responsabilità.