Oltre l’istante


“Per noi quello che sparisce è perduto per sempre” dice Cartier-Bresson e sembra proprio così. La fotografia ha pensato a lungo e forse ancora spesso lo pensa, che il suo compito sia quello di salvare uno stato del mondo dal Processo che lo supera continuamente, perché ogni stato del mondo che non sia stato fermato sarebbe destinato ad essere fagocitato dal movimento inarrestabile della realtà. Di qui forse viene anche l’ansia attuale, resa possibile dall’evoluzione tecnica del digitale, di fissare tutto, di fermare tutto, di conservare ogni momento anche il più insignificante nella presunzione che sia anche l’unico modo per salvare qualcosa dall’immane distruzione del tempo. Ciò che sfugge in questa dinamica che sembra essere ancora dominante in molte parti della pratica fotografica dei nostri giorni, è che invece il Processo non distrugge proprio nulla, che l’istante che sia fermato a meno dall’immagine fotografica non è destinato a scomparire in un nulla terrificante e irredimibile, perché ogni stato del mondo non è altro che lo stato precedente e quello successivo, sfogliati come in una sovrapposizione di trasparenze.
Allora, questa idea che di tutti i mezzi di espressione la fotografia sia “la sola capace di rendere l’eternità d’istante” che è propria dello stesso Cartier-Bresson, andrebbe ampiamente ridimensionata. L’istante non ha bisogno della fotografia per essere fermato, esso continua ad esistere, nonostante la presenza o l’assenza del fotografo, esiste nello spazio che ci circonda, nel mondo che abbiamo di fronte, nello spazio tempo nel quale noi stessi abbiamo ragione di esistere.
Ma forse è proprio questa la svolta che il fotografico deve elaborare compiutamente oggi. O almeno è quel che deve cominciare a pensare.

Mondi paralleli


C’è una corrente di pensiero attuale, per esempio Dubois, che pensa la fotografia come la rappresentazione di un mondo possibile e non come l’essere stato di un fatto reale. In questo senso la fotografia mostrerebbe non ciò che è stato ma ciò che è in un mondo parallelo, a-referenziale, plausibile, dotato di una propria logica e di una propria coerenza, ma non direttamente emanato dalla realtà fisica. L’immagine fotografica in questo senso non apparterrebbe all’universo della referenza ma piuttosto a quello della fiction. Chi si ferma su questa ipotesi non s’accorge chiaramente che la fotografia per il semplice fatto di essere chiamata in questo mondo, e di non essere dunque altra cosa, contiene in sé un legame referenziale, il che per altro non impedisce affatto che vi siano fotografie capaci di manifestare questa intenzione funzionale, solo che essa non cancella affatto il valore di traccia dell’immagine fotografica, quanto piuttosto la arricchisce di un contenuto aggiuntivo. Perché effettivamente è così, la fotografia tra le tante cose che sa fare, sa costruire mondi paralleli, ove “parallelo” significa che sta in un legame d’appartenenza con questo mondo, non è propriamente un altro mondo, ma questo in una sua versione; cioè la fotografia costruisce anche mondi possibili, dentro il mondo reale, nel momento in cui cogliendo una traccia del mondo isolata dal resto, strappata dal legame che la rende vera, la propone come forma o come espressione inaspettata e impensata. Il mondo parallelo che la fotografia può costruire è sempre un mondo che si apre come evento di ciò che ancora non è stato pensato, emergenza di un invisibile, apparizione di una possibilità. In quanto rappresentazione, e dunque frutto del lavoro intenzionale di un agente, essa rappresenta uno squarcio nella realtà che può prefigurare una variante di esso, cioè appunto una possibilità. 

Trasparenza


Osserviamo una fotografia: attraverso di essa  noi vediamo il mondo come lo si può vedere attraverso un vetro. Si frappone ma non si oppone. Per la natura di traccia che possiede, la fotografia non può non avere una certa trasparenza, non assoluta, ovviamente, una percentuale variabile a seconda della intenzionalità del fotografo. Eppure guardando una fotografia non possiamo non avere la sensazione di guardare il mondo stesso, o almeno un’ombra del mondo, un fantasma del mondo. Mentre il dipinto non è mai trasparente, in alcun modo, in alcuna misura, nemmeno il più realistico, esso si oppone come superficie non penetrabile al nostro sguardo. Ciò ovviamente non significa che la fotografia non conservi  la propria  soggettività di intenzione, il punto di vista e il lavoro del fotografo stesso, ma all’origine c’è sempre il processo causale che ha origine da una oggetto del mondo. Anche la foto più elaborata e più “artistica” conserva una sua certa capacità di trasparenza, senza la quale non sarebbe più una foto. 

Il digitale e la natura della fotografia


La grande riflessione teorica intorno alla fotografia si sviluppa negli anni ‘70/’80, a partire dai testi di Susan Sontag (1977) e di Roland Barthes (1980), e poi a quelli di Denis Roche, Jean-Marie Scheffer, Rosalind Krauss e altri. In questo contesto nasce il concetto del “fotografico”, che si intreccia con le riflessioni sul “visuale”.
Gli anni 2000 invece sono quelli della “svolta digitale” (digital turn), la quale appiattisce le differenze tra la fotografia e le altre forme d’immagine e quindi contribuisce a spostare l’attenzione dalle questioni ontologiche dell’immagine fotografica a quelle relative ai diversi usi della fotografia.
Il cambiamento è radicale: dal principio della traccia, dell’impronta, dell’”è stato”, dell’indice, al digitale che sembra tagliare proprio questo legame viscerale dell’immagine col mondo. Così la fotografia “emanazione del reale” (Barthes) o “transfert di realtà” (Bazin), sembra essere definitivamente superata dal digitale onnipotente, Dio o Diavolo.
Tuttavia proprio ciò che negli anni ‘80/’90 sembrava un superamento definitivo, oggi non appare più tale. Certo l’arrivo del digitale ha costretto a relativizzare il principio ontologico dominante e al contempo ha portato ad enfatizzare la natura di rappresentazione della fotografia, come se questa potesse scalzare e annullare la prima. In realtà è nella profondità della fotografia questa sua natura ibrida, cioè di essere al contempo una captazione del reale e una rappresentazione dello stesso. Il digitale ha soltanto spostato l’asse di equilibrio tra le due facce dello stesso oggetto, non ne ha modificato affatto la natura.
Che il digitale non modifichi in profondità la natura del fotografico è testimoniato anche da una facile similitudine che è possibile fare con altre forme di registrazione digitale, per esempio quella della musica o della voce: il fatto che una traccia fisica si traduca in un segnale virtuale non modifica l’effetto di attestazione, riconosco infatti la voce registrata di qualcuno anche se tra la materialità dell’emissione e la virtualità della registrazione non vi è alcuna somiglianza. Il potere di attestazione non viene scalfito al variare dei sistemi di registrazione, digitale o analogico non sono da questo punto di vista così diversi. Ciò rende le riflessioni inaugurali intorno alla fotografia ancora attuali e niente affatto superate.