“Per noi quello che sparisce è
perduto per sempre” dice Cartier-Bresson e sembra proprio
così. La fotografia ha pensato a lungo e forse ancora spesso lo pensa, che il
suo compito sia quello di salvare uno stato del mondo dal Processo che lo
supera continuamente, perché ogni stato del mondo che non sia stato fermato
sarebbe destinato ad essere fagocitato dal movimento inarrestabile della
realtà. Di qui forse viene anche l’ansia attuale, resa possibile
dall’evoluzione tecnica del digitale, di fissare tutto, di fermare tutto, di
conservare ogni momento anche il più insignificante nella presunzione che sia
anche l’unico modo per salvare qualcosa dall’immane distruzione del tempo. Ciò
che sfugge in questa dinamica che sembra essere ancora dominante in molte parti
della pratica fotografica dei nostri giorni, è che invece il Processo non
distrugge proprio nulla, che l’istante che sia fermato a meno dall’immagine
fotografica non è destinato a scomparire in un nulla terrificante e
irredimibile, perché ogni stato del mondo non è altro che lo stato precedente e
quello successivo, sfogliati come in una sovrapposizione di trasparenze.
Allora, questa idea che di
tutti i mezzi di espressione la fotografia sia “la sola capace di rendere
l’eternità d’istante” che è propria dello stesso Cartier-Bresson, andrebbe
ampiamente ridimensionata. L’istante non ha bisogno della fotografia per essere
fermato, esso continua ad esistere, nonostante la presenza o l’assenza del
fotografo, esiste nello spazio che ci circonda, nel mondo che abbiamo di
fronte, nello spazio tempo nel quale noi stessi abbiamo ragione di esistere.
Ma forse è proprio questa la
svolta che il fotografico deve elaborare compiutamente oggi. O almeno è quel
che deve cominciare a pensare.