La fotografia: una ferma avanzata


La fotografia rappresenta un tentativo di fermare il processo: essa interrompe lo svolgimento temporale come se si potesse immettere nel flusso un momento di ripetizione: allo stesso modo battere il passo interrompe lo svolgimento della marcia. Tuttavia l’immagine interrompe senza interrompere nulla: il processo infatti non si sospende affatto, anzi si moltiplica, la fotografia infatti dà origine a sua volta a una nuova linea spazio-temporale in quanto cosa nel mondo, in quanto oggetto, in quanto fatto cioè intreccio di relazioni e di eventi, destinato ad una storia, ad una mutazione, ad una trasformazione ecc.. Tuttavia essa continua indefinitamente a alludere a quella interruzione. Come l’angelo di Benjamin spinto in avanti inesorabilmente dal vento ma con la testa girata verso le macerie che vede dietro di sé.
Sostiamo un attimo a osservare la celebre immagine dell’uomo che salta di Cartier-Bresson, ecco, lì egli ha colto l’attimo decisivo, irripetibile, fulmineo, e l’ha immobilizzato, esso ora da allora ininterrottamente si ripete, senza però che nulla di quel momento sia ancora qui, l’uomo è certamente morto nel frattempo, quello spazio non è più come appare. Eppure quell’attimo si ripete, in una nuova storia che non è più quella dell’uomo che salta ma è quella della immagine che Cartier-Bresson ha realizzato dell’uomo che salta. E che ora possiamo vedere in un libro, sulle pagine di una rivista, in una mostra ecc.

Vedere o guardare


La fotografia ci mette di fronte alla distinzione tra vedere e guardare: tra la funzione visiva, che appartiene alla naturale percezione del mondo e per cui vediamo le cose che ci circondano, che tocchiamo, che usiamo; e l’atto intenzionale di inquadrare un pezzo di mondo e trasformarlo in immagine. La fotografia è la materializzazione del nostro guardare.
In quanto inquadramento, essa continua a ribadire non solo l’immagine guardata, ma anche lo sguardo che l’ha fermata, essa è memoria di un pezzo di realtà nel suo processo, quanto quella di un atto intenzionale, uno sguardo che proprio quella realtà ha voluto fissare.
Di fronte a una  fotografia, dunque, mi trovo a fare esperienza di una duplicità inestricabile ma distinta, quella del tratto di realtà e di spazio-tempo che ho sottratto al processo, e quella dello sguardo – di un certo “guardare” – che è implicito in quella immagine. I due lati dell’immagine possono essere indagati distintamente senza poter, ovviamente, essere mai separati l’uno dall’altro.
La dimensione fisiologica del vedere, non è diversa in fondo da quella meccanica dell’obbiettivo fotografico, esso “vede” in modo automatico, neutrale, ovunque la macchina venga girata l’obbiettivo continua a vedere quella parte del mondo che la sua “fisiologia”, ovvero la struttura ottica e meccanica, gli consente di vedere. Ma è soltanto l’occhio del fotografo che sa guardare, anche la macchina più sofisticata che oggi sa riconoscere la presenza di un volto o di un paesaggio, non sarà mai in grado di raccontare la solitudine di un paesaggio, la felicità di un sorriso, ecc.

Scrive Augusto Pieroni che “La fotografia non afferra il mondo, lo dà a vedere” (Leggere la fotografia, 35). È così, ma cosa vuol dire “dare a vedere”. Posso dire di osservare compiutamente una immagine solo quando la mia osservazione non si limita alla parte esposta, superficiale, visibile, ma contempla anche la parte invisibile. Il mondo si dà a vedere nel momento in cui afferro ciò che in esso non si vede. Vedo correttamente (cioè in un modo non superficiale ed esteriore) solo se vedo anche l’invisibile che ogni immagine porta con sé. Ugualmente posso dire della fotografia, essa è davvero riuscita solo se mette in luce anche una parte invisibile. Altrimenti è un’immagine morta. Di pura superficie.

Vedere il processo


La fotografia vive un perverso destino di rappresentazione che si ripete, perché da un lato sembra riproporre sempre il proprio tempo, quasi si trattasse di un tempo immobilizzato, quello che “è stato”, e dunque è diverso da questo che viviamo ora, ma dall’altro essa è sempre anche un oggetto di questo tempo, e allora il suo riferirsi  a qualcosa di passato assume quasi un tono allucinatorio, non perfettamente collocabile nella sequenza temporale, perché quasi-reale, non del tutto reale. La fotografia in effetti rende manifesta in questo modo un po’ strano e contraddittorio (“sono un oggetto presente ma vorrei essere un pezzo di passato immobilizzato”) una qualità del tempo che non percepiamo immediatamente nel corso della nostra percezione della realtà. Vale a dire l’elemento della permanenza. Perché sì è vero che tutto scorre, ma solo perché tutto permane, perché siamo dentro un processo in cui tempo e spazio solidalmente connessi si svolgono – insieme scorrendo e pur permanendo -. La fotografia svela questo arcano.
Almeno, a saperla guardare.
Ciò che colpisce R. Barthes nella fotografia della madre, il punctum, l’irripetibile elemento che nessuno studium, nessuna analisi, può comprendere e realizzare, è proprio questo, secondo me, non tanto che la foto colga un momento nel tempo fissato per sempre, un momento di vita per una persona ormai morta, ma piuttosto che quella foto colga la permanenza nel tempo di ogni momento, anche quello. Appare con sgomento il fatto che la madre è eternamente ciò che è stata, una madre viva prima di esser una madre morta. Appare cioè il processo che normalmente non percepiamo, come non percepiamo l’inarrestabile movimento di questo pianeta nel cosmo.

Sensibili alla luce


Osserviamo tutto, ma siamo incapaci di vedere: proprio nel momento in cui l’immagine sembra aver sovrastato la parola, proprio oggi che siamo costantemente  bombardati da immagini, proprio ora che il visivo occupa ogni spazio di comunicazione e di informazione, ebbene proprio in questo momento ci rendiamo conto che non sappiamo più veramente guardare, che dobbiamo cioè recuperare lo sguardo, la capacità di vedere. È proprio per questo che la fotografia diventa, in questo particolare momento, ancora più importante. Proprio essa che è fra i responsabili del diluvio d’immagini mute – o almeno afone – che ci stanno annegando, proprio essa potrebbe essere anche la medicina. A condizione che reimpari a guardare. In fotografia re-imparare a guardare significa ovviamente recuperare la sensibilità alla luce. Ma non basta, perché – il fotografo lo sa bene – la luce è anche il luogo dell’assenza e della presenza, ovvero il luogo della verità. Non si tratta solo di tornare alla fotografia documentaria, quella che nel secondo dopoguerra ha aperto lo sguardo occidentale alla vastità del mondo e delle culture e delle realtà e dei disastri e della storia. No, non solo, si tratta piuttosto di tornare a osservare le cose, gli oggetti, i fatti, nel senso di quei nodi di relazioni fra cose, persone, gesti, ambienti che costituiscono la nostra vita quotidiana. Tutto ciò che la fotografia diffusa non vede, perché insegue soltanto la rappresentazione teatrale della propria identità, invece di rivolgersi al mondo circostante, cioè quel mondo senza il quale nessuna identità si costituisce veramente.

Ontologia della fotografia


La fortuna del fotografo è che il mondo gli si offre. Pronto. Che il mondo è lì. La fotografia è un’ontologia molto saggia, perché dice l’esperienza, al di là di ogni scetticismo, che il mondo è lì, che il mondo c’è. E che noi siamo nel mondo.
Il fotografo si pone come testimone informato dei fatti, i fatti sono proprio quei frammenti di esistenza e di mondo che egli ritaglia dal flusso del tempo. Tuttavia, egli è anche la prova che tutto il nostro mondo, il mondo visibile è allo stesso tempo e nella stessa misura anche un mondo invisibile. O meglio: che l’invisibile si innesta nel visibile, che ciò che vediamo, percepiamo, ciò di cui siamo testimoni attraverso le immagini che realizziamo, tracce del reale, contiene in sé anche un altro lato non visibile, come accade ad ogni oggetto, ma anche ad ogni forma, ad ogni movimento, ad ogni percezione come ad ogni immaginazione. Ogni luce ha la sua ombra. Il fotografo è maestro della luce e quindi anche dell’ombra. La saggia ontologia del fotografo non è dunque un materialismo gretto, ma è piuttosto una testimonianza complessa della realtà intesa come un impasto di percezione di sguardo, di visibile e di invisibile, di luce e di ombra.