Alberto Savinio è consapevole
che “l’invenzione della fotografia segna in punto di trasformazione nella
storia dell’umanità”, pari e forse
persino più rilevante di quella della conquista di Costantinopoli o della
scoperta dell’America. Addirittura, aggiunge sapientemente, se si vuol
comprendere la rilevanza di tale invenzione per l’architettura stessa del
pensiero bisogna ripensare al passaggio dalla Scolastica medievale al pensiero
moderno, o alla scoperta della coscienza da parte di Socrate.
La responsabilità della
fotografia, secondo Savinio, è quella d’aver “tolto il colore al mondo, lo ha
decolorato e ha inaugurato una cruda, stupefatta, tragica «notte bianca»”. Perché certo la fotografia rivela i dettagli nascosti nelle pieghe dei
fatti comuni, i segreti, i movimenti e gli attimi; senza pietà e senza pudore
la fotografia apre il sipario di ogni spettacolo proibito, di ogni amore, di
ogni angoscia, di ogni dolore, ma tutto ciò ha un prezzo, ed è appunto quello
della perdita del colore.
Ma qui Savinio non allude tanto
al fatto tecnico del bianco e nero, quanto piuttosto metaforicamente, al colore
poetico – e pittorico – che non è solo tecnica, ma prima ancora è metafora
(Savinio nello stesso senso ripoensa al color cadmio dell’Iliade, all’oltremare
dell’Odissea, al vermiglio e ceruleo della Commedia). Allora al bianco e nero della
fotografia corrisponde l’affermarsi della prosa, della prosa in bianco e nero
appunto, si pensi, dice Savinio, a Flaubert, ai veristi, al melodramma
italiano. Fenomeni che non si spiegherebbero senza l’invenzione della
fotografia.
Poi però anche la fotografia ha
cominciato ad avere un’anima, un cervello e un cuore, di qui si è arrivati alla
pretesa della fotografia di essere riconosciuta come un’arte, e cioè al
“cézannismo fotografico”, fatto di piani deformati, orizzonti obliqui,
uomini trasformati in piramidi, ecc… Ma in questa pretesa, secondo Savinio, la
fotografia non può che fallire, perché essa può solo riprodurre una realtà
meccanica, non la vera realtà. “Manca alla fotografia il «mistero dello
sguardo». Quello scambio di sguardo da pupilla a pupilla, quel guardare atteso
e mosso che coglie di sorpresa la
realtà delle cose, nella fotografia non avviene, non può avvenire, perché la
fotografia ha un occhio solo, e questo pure privo di movimento."
Non c’è che dire, Savinio
coglie un punto essenziale, per quanto la sua analisi sia quella di un artista,
di un pittore, certo non benevolo nei confronti della rappresentazione
meccanica della realtà, eppure nella sua analisi emerge una questione
fondamentale e ancora ampiamente inesplorata: che la fotografia è sempre
sguardo immobile, è lo sguardo che si congela nel vedere, non è solo l’attimo
del tempo ciò che viene colto e immobilizzato, ma è prima di tutto lo sguardo
che si immobilizza, e diventa in questo senso e in questo modo “disumano”
perché l’occhio umano è un occhio che non può mai stare fermo, è un occhio che
si muove, che insegue, che si sposta, che avvicina e allontana il fuoco è uno
sguardo duplice e inarrestabile, mentre lo sguardo della macchina fotografica è
uno sguardo immobile, con un occhio solo che si ferma per un attimo in modo del
tutto innaturale.
In questo senso il fotografico
perde il mistero dello sguardo, non
c’è dubbio, ciò che Savinio non coglie è che nello stesso momento la fotografia
fa emergere uno sguardo nel mistero
se per mistero intendiamo non una qualche oscurità spiritualista, ma il grande
segreto dell’invisibile che fa parte della nostra esistenza quotidiana.