La fotografia mette in imbarazzo la metafisica e tutte le sue belle certezze. Perchè la sua materia sono le apparenze, ma attraverso la fotografia l'apparenza diventa sostanza, e allo stesso tempo anche il contrario: la materia visibile diventa apparenza.
La fotografia, con delicatezza e con gusto, mostra proprio questo passaggio, mostra cioè come la distinzione classica tra realtà e apparenza, tra cosa in sè e fenomeno, sia insufficiente, mancante, debole. E come invece l'uomo abbia sempre a che fare con il movimento, il passaggio, la pulsazione della materia visibile che diventa figura e della figura che si fa traccia, indice, di una realtà visibile. Il nostro rapporto con la materia pesante della realtà, infatti, è sempre mediato da forme di rappresentazione e di significazione, tanto quanto ogni forma di rappresentazione e di significazione, immagini, linguaggi, ha senso in quanto emerge da una realtà materiale visibile. La fotografia sembra volersi intallare proprio in quella terra di mezzo che è il movimento dall'uno all'altro momento, tra la realtà visibile e la sua immagine.
Ciò che tuttavia resta da chiarire, è proprio ciò che è racchiuso nella parola "visibile", perchè la fotografia è traccia sempre del visibile, è il suo destino di scrittura della luce, e quindi il suo vero problema "metafisico" è proprio fare i conti con l'invisibile che ogni visibile si porta addosso.
Chi volesse sul serio comprendere la fotografia dovrebbe farsi questa domanda: in che modo la fotografia trascina con sè l'invisibile? Purtroppo la risposta non è semplice.
Ripetizione e differenza
La fotografia introduce la ripetizione nella differenza. Quell'istante che è stato fermato e sottratto al processo dell'esistenza, si ripete indefinitamente, batte il passo sul posto, si replica all'infinito come se non ci fosse sviluppo alcuno, come se l'istante fosse l'eterno. Ma allo stesso tempo, inaspettatamente, la foto, che è sempre un oggetto del mondo, inaugura un nuovo risvolto del processo, comincia una sua propria storia, la storia di quell'oggetto particolare che è la fotografia stessa, che sia una lastra o un foglio di carta o un insieme di pixel. E dunque da una parte essa è quell'istante che è stato fermato, ma nell'unico modo in cui il processo può fermarsi ovvero ripetendo, replicando all'infinito, ma dall'altro essa è anche una nuova differenza, che si costituisce, all'interno delle differenze che compongono il mondo.
L'ambiguità costitutiva della fotografia è racchiusa in questo doppio destino di ripetizione e di differenza. Nessun altro elemento della realtà possiede questa straordinaria caratteristica.
La rappresentazione dell'impossibile
C'è sempre un personaggio nascosto nella fotografia. Sei tu fotografo.
Sei tu che assumi la parte del fotografo, il quale ti presta un punto di vista: da quel punto di vista osservi la scena, sei dunque presente in quella scena, sei lo sguardo che la rende possibile. La posizione della macchina fotografica è la posizione del tuo sguardo, se c'è dunque un "inconscio" fotografico non è certto quello tecnologico di cui parla Franco Vaccari, ma è sicuramernte la tua presenza sempre presente e mai evidente, la tua ombra che in ogni foto si nasconde ma è presente inesorabilmente. Perchè non c'è foto se non c'è alle spalle una intenzionalità umana, creativa, visionaria, il tuo sguardo di fotografo appunto.
Personaggio invisibile ma sempre presente, della tua presenza si percepisce l'assenza, so che sei lì dietro, dietro quella foto, dietro quell'obiettivo. Non c'è alternativa.
In un ritratto se la persona fotografata guarda in macchina sta guardando te. In un autoritratto, penso per esempio a quelli bellissimi di Vivian Maier, ciò che appare è appunto quel fantasma che almeno in quella particolare ripresa non può fare a meno di svelare la sua presenza, ma nel farlo chiude l'esperienza in un circolo come se ciò che sta dietro potesse stare anche davanti, come se l'invisibile postesse essere visto. Non c'è immagine più inquietante di un autoritratto fotografico perchè è rappresentazione
dell'impossibile.
Sei tu che assumi la parte del fotografo, il quale ti presta un punto di vista: da quel punto di vista osservi la scena, sei dunque presente in quella scena, sei lo sguardo che la rende possibile. La posizione della macchina fotografica è la posizione del tuo sguardo, se c'è dunque un "inconscio" fotografico non è certto quello tecnologico di cui parla Franco Vaccari, ma è sicuramernte la tua presenza sempre presente e mai evidente, la tua ombra che in ogni foto si nasconde ma è presente inesorabilmente. Perchè non c'è foto se non c'è alle spalle una intenzionalità umana, creativa, visionaria, il tuo sguardo di fotografo appunto.
Personaggio invisibile ma sempre presente, della tua presenza si percepisce l'assenza, so che sei lì dietro, dietro quella foto, dietro quell'obiettivo. Non c'è alternativa.
In un ritratto se la persona fotografata guarda in macchina sta guardando te. In un autoritratto, penso per esempio a quelli bellissimi di Vivian Maier, ciò che appare è appunto quel fantasma che almeno in quella particolare ripresa non può fare a meno di svelare la sua presenza, ma nel farlo chiude l'esperienza in un circolo come se ciò che sta dietro potesse stare anche davanti, come se l'invisibile postesse essere visto. Non c'è immagine più inquietante di un autoritratto fotografico perchè è rappresentazione
dell'impossibile.
Ferdinando Scianna
Per la bella collana Hachette "Magnum Photos, la storia, le immagini", è uscito in questi giorni il volume dedicato a Ferdinando Scianna. Raccoglie in un bel formato A3 e in buona qualità di stampa, una raccolta essenziale ma sognificativa del lavoro del grande fotografo siciliano. Introdotte da uno scritto autobiografico, le 96 pagine del volume si snodano dalle prime foto quasi neorealistiche di una Sicilia in bianco e nero "per natura" prima che per scelta artistica, ove paesaggi e ombre, profili e costumi si dipanano fino ad intrecciarsi nel racconto, unico e a suo tempo eversivo, di un mondo di feste religiose cariche di arcaismi, di tensioni mistiche, di superstizioni, di passioni incontenibili. C'è tutto un mondo antico, sanguigno e rurale nelle foto di Scianna che oggi appaiono quasi documentazione da un altro tempo. Un tempo che paradossalmente Scianna ritrova vent'anni dopo in Bolivia nel villaggio Kami.
Ma il suo percorso non si ferma, fedele al bianco e nero si articola poi in tanti luoghi del mondo, sempre alla ricerca non dell'effetto facile, ma della figura che s'impone allo sguardo, che impone lo sguardo, che, come nei ritratti, intreccia lo sguardo di chi osserva e quello di chi è osservato. Anche quando diventa fotografo di moda, Scianna non riesce a staccarsi dalle sue figure, dalla sua visione monocromatica di un mondo vero, nel quale persino la finzione della modella e della posa, vengono riassorbiti come la natura riassorbe nel tempo i manufatti dell'uomo.
Ferdinando Scianna
Milano, Hachette, 2018
p. 96, € 9.99
Ma il suo percorso non si ferma, fedele al bianco e nero si articola poi in tanti luoghi del mondo, sempre alla ricerca non dell'effetto facile, ma della figura che s'impone allo sguardo, che impone lo sguardo, che, come nei ritratti, intreccia lo sguardo di chi osserva e quello di chi è osservato. Anche quando diventa fotografo di moda, Scianna non riesce a staccarsi dalle sue figure, dalla sua visione monocromatica di un mondo vero, nel quale persino la finzione della modella e della posa, vengono riassorbiti come la natura riassorbe nel tempo i manufatti dell'uomo.
Ferdinando Scianna
Milano, Hachette, 2018
p. 96, € 9.99
Prove ontologiche
Forse esiste solo ciò che è fotografato. Forse se ci chiediamo se qualcosa esiste possiamo rispondere con certezza solo esibendo una bella fotografia. Forse è così che ormai funziona il nostro sistema probatorio ontologico (che le cose esistano) nell'epoca mediatica.
Ci affidiamo come garanzia d'esistenza a una foto che non è altro se non una confusa agglomerazione di sostanze sensibili o di pixel. Eppure è proprio quel tipo di materia che funziona da garanzia ontologica. Allo stesso tempo, tuttavia noi sappiamo, almeno a partire dalle riflessioni di Roland Barthes, che la fotografia ha introdotto una nuova categoria dello spazio-tempo, non l'Esserci, ma l'Esserci-stato, ovvero una congiunzione tra il qui e un tempo, ciò dà alla fotografia un certo qual carattere magico, il potere di rendere presenti le cose assenti, e insieme di rendere vero ontologicamente (esiste!) ciò che in realtà è esistito. E' l'evidenza sorprendente di ciò che appare esistere, anche se la prova che prendiamo per buona non resisterebbe a nessuna seria indagine, eppure per noi è sufficiente. Perchè in fondo - ma non lo ammetteremo tanto facilmente - il nostro rapporto con il mondo che vorremo così rigidamente e solidamente fondato, in fondo non è altro che una miscela di visibile e invisibile, e spesso ci illudiamo, immaginiamo, creiamo, più di quel che saremmo disposti ad ammettere.
Ci affidiamo come garanzia d'esistenza a una foto che non è altro se non una confusa agglomerazione di sostanze sensibili o di pixel. Eppure è proprio quel tipo di materia che funziona da garanzia ontologica. Allo stesso tempo, tuttavia noi sappiamo, almeno a partire dalle riflessioni di Roland Barthes, che la fotografia ha introdotto una nuova categoria dello spazio-tempo, non l'Esserci, ma l'Esserci-stato, ovvero una congiunzione tra il qui e un tempo, ciò dà alla fotografia un certo qual carattere magico, il potere di rendere presenti le cose assenti, e insieme di rendere vero ontologicamente (esiste!) ciò che in realtà è esistito. E' l'evidenza sorprendente di ciò che appare esistere, anche se la prova che prendiamo per buona non resisterebbe a nessuna seria indagine, eppure per noi è sufficiente. Perchè in fondo - ma non lo ammetteremo tanto facilmente - il nostro rapporto con il mondo che vorremo così rigidamente e solidamente fondato, in fondo non è altro che una miscela di visibile e invisibile, e spesso ci illudiamo, immaginiamo, creiamo, più di quel che saremmo disposti ad ammettere.
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