Nel panorama dei testi dedicati a una riflessione sul fotografico c'è un libro di Geoff Dyer, L'infinito istante, che rappresenta certamente un unicum, perchè coglie ed enfatizza un elemento che non è nè storico nè teorico, ovvero il fatto che la fotografia è anche rapporto con l'oggetto quotidiano. Osservando le opere dei grandi fotografi, infatti, Dyer fa emergere un legame insospettabile tra essi: il legame dell'oggetto, come elemento di richiamo, di continuità, di silenzioso rinvio dall'uno all'altro. Che si tratti del cappello, dell'ombrello o della panchina, delle scale, della fisarmonica, dei ciechi o di corpi nudi, la fotografia funge sempre e costantemente da legame di cose in senso largo.
Certo c'è anche una fotografia di pure forme, ma è un confine, un margine estremo del fotografare, quello in cui esso diviene mezzo di un'intenzione artistica rivolta all'astratto, ma non è questa la natura del fotografico. Se la pittura può - e lo ha fatto - liberarsi del rapporto con il mondo degli oggetti rappresentando di essi solo alcune forme - colori, sensazioni tattili o visive, spazi senza nome, ecc. - la fotografia, che pure dal punto di vista tecnico è capace di questa operazione, trova molto più difficile liberarsi del rapporto con le cose.
La fotografia resta comunque un rapporto con il mondo, in cui il mondo stesso continua ad avere un nome. Fotografare è sempre un modo per costruire una relazione con le cose, o se si vuole, per trasformare il muto oggetto in una cosa umana.
Quel cappello, quell'ombrello, quella panchina, diventano mondo dentro l'obiettivo di un fotografo.
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