Il pittore è fondamentalmente
un platonico, perché in definitiva ciò che fa è cercare le essenze, quelle che
ritiene racchiuse nella sua creazione, quelle che crede stiano dietro ogni
rappresentazione. Il fotografo invece è fondamentalmente un aristotelico perché
piuttosto cerca enti, oppure realizza l’attualità degli enti. Il genere
del ritratto può essere preso come modello
per misurare la distinzione. Da un lato il pittore ritrae la persona per far
emergere quella che potremmo chiamare la sua anima, e che si nasconde dietro i
tratti di somiglianza che non potranno mai ridare l’assoluta realtà esteriore
della persona, ma forse, se il pittore è grande, potranno far emergere la vera
realtà interiore di essa – appunto la sua anima, o la sua essenza.
Invece il fotografo nel momento
in cui fa un ritratto prima di tutto si accerta che l’immagine corrisponda al modello, che sia nitida, che
l’esposizione sia corretta, che la luce non nasconda i tratti ma li rilevi,
insomma il fotografo prima di tutto, fa emergere l’ente reale, lo rende
attuale, è proprio lì, è proprio Baudelaire,
non qualcun altro quello ritratto da Nadar.
Naturalmente tutta la storia
della fotografia sta a mostrare come i fotografi abbiano cercato di liberarsi
pian piano di questo destino aristotelico, e si siano invece sforzati di non
essere meno platonici dei loro cugini pittori. Ma liberarsi di un vizio
d’origine non significa che quel vizio non sia mai esistito.
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