L’apparecchio fotografico serve
a fotografare il passato non il presente, perché ciò che fissa nella sua
traccia è sempre un attimo, o un secolo,
prima del momento in cui l’immagine diviene comunicazione pubblica. Questo
potrebbe mettere in imbarazzo ogni seria volontà di produrre documentazione
cronachistica della realtà attraverso l’immagine. La foto documentaria, cioè,
rischia di essere tristemente appesa a uno sguardo passato proprio nel momento
in cui vorrebbe essere testimonianza del presente. È vero, la foto, come osserva Barthes ci comunica
sempre la stessa notizia: è stato, quell’oggetto,
quella persona, quel fatto, è stato, lo osservo in quella immagine proprio perché
è stato e non è ora. La fotografia dunque sembra sempre un passo indietro, inesorabilmente
indietro rispetto al momento presente. Ma le cose non stanno esattamente così.
Infatti il punto è che proprio questa osservazione dovrebbe indurci a
riflettere meglio sulla nostra nozione del tempo, sull’idea ingenua delle tre
dimensioni temporali separate e inconciliabili. E potrebbe farci pensare invece
a una dimensione del tempo complessa in cui ogni presente è insieme anche il
suo passato, quel passato dal quale il presente stesso si genera, e al contempo
contiene in sé il germe del possibile futuro che da esso sgorgherà. Da questo
punto di vista complesso, la fotografia resta testimone del passato, ma al
contempo mostra in quel passato l’aderenza a un presente in esso contenuto e
persino ogni ulteriore sviluppo futuro. Il suo potere testimoniale non ne è
affatto sminuito ma anzi al contrario ne risulta enfatizzato. Perché ogni frazione di tempo fissata dalla fotografia
non è un semplice è stato, ma è piuttosto
una densa miscela di ciò che è stato e nel momento in cui è stato ha costruito il
presente di quel che c’è ora e in sé conteneva l’anticipazione di quel che sarebbe
stato dopo. Le tre dimensioni sono fuse insieme nell’immagine fotografica, ed è
difficile districarle. Ma il tempo è così. Niente di semplice.
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