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Guerra contro il tempo


Leonardo Sciascia sostiene la tesi per il cui il Ritratto fotografico dovrebbe essere inteso come una forma di entelechia aristotelica. Se il luogo comune a proposito del ritratto fotografico pensa sia un modo di affidarsi alla mano altrui, invece bisogna riconoscere che il ritratto fotografico come entelechia ci dimostra che ognuno, in ogni punto della propria vita è colui che è alla fine della propria esistenza. Così come Barthes riconosce la madre nella foto di una bambina di cinque anni, e così come Agostino dice del tempo che tutte e tre le dimensioni sono presenti simultaneamente nell’anima. Il presente della fotografia contiene il passato di quando è stata fatta e il futuro che è venuto dopo e che la morte magari ha concluso, perché la foto inesorabilmente, come dice Barthes, rappresenta un “è stato”. Ed è proprio questa la sua natura di traccia del reale. Il punto è che noi stessi fraintendiamo il reale e non ci accorgiamo che esso stesso contiene in sé il tempo, il suo passato, il suo presente di cosa, il suo futuro di possibilità. Ecco la fotografia, possiamo aggiungere noi, ha questo effetto rivelativo di fare emergere la vera natura del rapporto tra le cose  e il tempo, e ciò vale in modo inquietante anche per noi esseri umani, come dimostra il ritratto fotografico.
Nulla dunque è più vicino all’abolizione del tempo della fotografia, scrive sempre Sciascia (Scrittori e fotografia), ma allo stesso tempo nulla è anche più lontano. È questo il “piccolo dramma metafisico” che ogni fotografia e in particolare quella di ritratto conserva in sé.
Perché la fotografia è appunto una guerra contro il tempo, persino più efficace di quella rappresentata da storia e romanzo. Ma è una guerra che la fotografia è destinata a perdere.

La fotografia e il tempo complesso


L’apparecchio fotografico serve a fotografare il passato non il presente, perché ciò che fissa nella sua traccia è sempre  un attimo, o un secolo, prima del momento in cui l’immagine diviene comunicazione pubblica. Questo potrebbe mettere in imbarazzo ogni seria volontà di produrre documentazione cronachistica della realtà attraverso l’immagine. La foto documentaria, cioè, rischia di essere tristemente appesa a uno sguardo passato proprio nel momento in cui vorrebbe essere testimonianza del presente.  È vero, la foto, come osserva Barthes ci comunica sempre la stessa notizia: è stato, quell’oggetto, quella persona, quel fatto, è stato, lo osservo in quella immagine proprio perché è stato e non è ora. La fotografia dunque sembra sempre un passo indietro, inesorabilmente indietro rispetto al momento presente. Ma le cose non stanno esattamente così. Infatti il punto è che proprio questa osservazione dovrebbe indurci a riflettere meglio sulla nostra nozione del tempo, sull’idea ingenua delle tre dimensioni temporali separate e inconciliabili. E potrebbe farci pensare invece a una dimensione del tempo complessa in cui ogni presente è insieme anche il suo passato, quel passato dal quale il presente stesso si genera, e al contempo contiene in sé il germe del possibile futuro che da esso sgorgherà. Da questo punto di vista complesso, la fotografia resta testimone del passato, ma al contempo mostra in quel passato l’aderenza a un presente in esso contenuto e persino ogni ulteriore sviluppo futuro. Il suo potere testimoniale non ne è affatto sminuito ma anzi al contrario ne risulta enfatizzato.  Perché ogni frazione di tempo fissata dalla fotografia non è un semplice è stato, ma è piuttosto una densa miscela di ciò che è stato e nel momento in cui è stato ha costruito il presente di quel che c’è ora e in sé conteneva l’anticipazione di quel che sarebbe stato dopo. Le tre dimensioni sono fuse insieme nell’immagine fotografica, ed è difficile districarle. Ma il tempo è così. Niente di semplice.