AA. VV., Un tempo, un luogo. Racconti di fotografia, Roma, Contrasto, 2020
Il volume consiste di una ricca raccolta di storie che hanno per contenuto la fotografia, ed è curata da Alessandra Mauro che introduce ogni pezzo con una nota sintetica ma stimolante. La selezione si snoda cronologicamente da un testo del 1855 di Lewis Carroll a quello di Antonio Tabucchi del 2011, e pur non avendo alcuna pretesa di esaustività raccoglie una bella collezione di pagine, alcune più schiettamente narrative, Capuana, Conan Doyle, Daphne de Maurirer, Calvino, Cortazar, Tournier, Carver, altri più riflessive, Carroll, Woolf, Welthy, Tabucchi.
Non avrebbe senso stilare una graduatoria o un ordine, perché ovviamente ogni pezzo è storia a sé e ha qualcosa di interessante da proporre, sia al livello di immaginazione, sia a livello di riflessione. Certo il racconto di Calvino, per il mio discutibilissimo gusto personale emerge per l’efficacia dell’intrico amoroso, tutto giocato sulla complessità dell’esperienza fotografica, così come non può non colpire il racconto di Capuana che ci mostra il legame strettissimo, e forse ancora non adeguatamente indagato, tra il verismo, o il realismo letterario in generale, e l’esperienza della fotografia nell’800; oppure il racconto di Conan Doyle che impone, siamo nel 1891, la realtà della fotografia come prova indiziaria. E poi c’è, e non poteva mancare, il racconto di Julio Cortazar, Le bave del diavolo, dal quale Michelangelo Antonioni ha tratto ispirazione per quel film fondamentale per comprendere l’esperienza del fotografico che è Blow up. Un racconto dalle molte facce, complesso, articolato, giocato su un continuo cambiamento dei punti di vista, nel quale emerge la dimensione della fotografia come mondo altro, che si incista nel nostro per apportarvi una verità di altro livello.
E c’è infine il racconto di Antonio Tabucchi che chiude il libro ove lo scrittore immagina di aver ritrovato una lettera di Hippolite Bayard all’accademico Arago, colui che presentò ufficialmente al mondo scientifico l’invenzione della fotografia nel 1839 attribuendone però il merito all’amico Daguerre e mettendo così in ombra il ruolo di Bayard. La lettera d’accusa contiene una folgorante definizione della fotografia come “un mezzo che può cogliere per un attimo la musica della vita.” Difficilmente è stata data definizione più efficace e più poetica.
Sarebbe facile il gioco, come accade per tutte le antologie, di suggerire i pezzi che mancano, o quelli che avrebbero potuto essere aggiunti, e quindi ci asterremo, salvo accontentarci di suggerire come possibile appendice magari per una edizione futura un raccontino poco noto in Italia dal titolo “Leggenda del dagherrotipo” (1863) di Champfleury (1821-1889), grande esponente del realismo letterario: una deliziosa parodia dei primissimi fotografi parigini. Per i curiosi ne pubblicherò al più presto una traduzione su questo blog.
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