Una cosa è certa: la fotografia, pur essendo una traccia del reale, pur provenendo da esso, non è mai uno specchio del reale. E' sempre qualcosa di molto più complesso e più problematico.
In questo senso non è sufficiente guardarla, osservarla, contemplarla, essa cioè non può esaurirsi mai nel suo valore estetico. La foto va letta. Come scrive Graham Clarke: "più della azione di guardare che suggerisce un riconoscere passivo, dobbiamo insistere sul nostro leggere una foto non come immagine ma come testo". Possiamo leggere dunque la fotografia, possiamo entrare nella sua grammatica, che a grandi lineee può essere sintetizzata nelle formule della bidimensionalità, nella logica dell'inquadratura, nella dialettica tempo/diaframma, nella scelta del piano di messa a fuoco, e nella creatività stessa della messa a fuoco, e poi in tutta la varietà delle pratiche di post-produzione.
Bene, una volta che si sia "letta" la fotografia secondo la grammatica del suo discorso, avremo certo molto più chiare le circostanze della venuta, e la natura del gesto fotografico, ma ancora non sarà abbastanza. Perchè resta quell'elemento residuo ineliminabile, che consiste nella natura di traccia: resta cioè da confrontarci con quel mondo senza il quale la fotografia non sarebbe mai esistita. E per farlo non basta nè guardare, nè leggere, è necessario pensare. E' l'elemento riflessivo che ci pone all'altezza del mondo, senza di esso, il rapporto con la fotografia è mancante, è parziale, è inadeguato. La fotografia deve farci pensare, è questo il suo compito. Una fotografia veramente riuscita è proprio quella che più profondamente ci investe di interrogazioni, ci costringe prendere posizione rispetto ai fatti del mondo, ci impone di essere nel mondo, in qualche modo, secondo ragioni e valori e ci richiama al nostro ruolo di nodi nella rete delle relazioni.
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