Mondi paralleli

Non si finisce mai di riflettere sulla complessa natura ibrida della fotografia. Il suo essere traccia, per esempio, è di natura tale da lasciare perplessi: ciò che non è fotografato scompare, nel senso che accede a un'altra dimensione dell'esistenza, quella della memoria, del ricordo, degli affetti, dei sentimenti, ecc. o quella della storia. Anche se si tratta di un paesaggio che, si potrebbe obiettare, comunque sopravvive indipendentemente dal fatto di essere stato fotografato o meno, in realtà il paesaggio fotografato è sempre un paesaggio visto, inquadrato, sezionato dal tutto, dallo sguardo del fotografo, e allora, di nuovo ciò che non è fissato sulla lastra, sulla carta sulla trama dei pixel, non sopravvive, nel senso appunto che lo sguardo (non l'oggetto) si perde, accede a quell'altro mondo della memoria personale. 
Ciò che è fotografato, invece, sopravvive, ma non come ciò che è, ma nella forma del fotografato, la forma dell'esser-stato. 
C'è un mondo allora, lì fuori, e c'è un mondo di sguardi, di inquadrature, di sezioni, di cornici... e poi c'è il mondo fotografato. Insomma, ci sono molti mondi paralleli. Dal 1839 c'è anche il mondo fotografato.  
Forse l'aspetto più inquietante di questa pluralità di mondi la si percepisce di fronte al ritratto fotografico dell'800 o del primo '900. Perché ci dà l'impressione di conservare aperto e irrisolto il paradosso della morte: quello che ride, che saluta, che cammina, che salta, in quell'immagine è un vivo che però è morto, non può più essere, è stato, ma resterà per sempre fissato in quell'attimo che diviene traccia, insieme, della sua vita e della sua morte. Così come la morte è qualcosa di cui si parla solo finchè si è in vita, secondo il fulminante detto epicureo, così la fotografia ferma la vita in un istante: è lì, in quello sguardo, in quel sorriso, in quell'attimo vitale, che però indica l'esser morto, ciò che è stato ma non può più essere. La stessa immagine dice la vita e dice la morte. In questo senso possiamo leggere il frammento 48 di Eraclito: "Il nome dell'arco è vita, mentre la sua opera è morte".

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