La fotografia vive un perverso destino di rappresentazione
che si ripete, perché da un lato sembra riproporre sempre il proprio tempo, quasi si trattasse di un tempo immobilizzato,
quello che “è stato”, e dunque è diverso da questo che viviamo ora, ma
dall’altro essa è sempre anche un oggetto di questo tempo, e allora il suo
riferirsi a qualcosa di passato assume
quasi un tono allucinatorio, non perfettamente collocabile nella sequenza
temporale, perché quasi-reale, non del tutto reale. La fotografia in effetti
rende manifesta in questo modo un po’ strano e contraddittorio (“sono un
oggetto presente ma vorrei essere un pezzo di passato immobilizzato”) una
qualità del tempo che non percepiamo immediatamente nel corso della nostra
percezione della realtà. Vale a dire l’elemento della permanenza. Perché sì è vero che tutto scorre, ma solo perché tutto
permane, perché siamo dentro un processo in cui tempo e spazio solidalmente
connessi si svolgono – insieme scorrendo e pur permanendo -. La fotografia
svela questo arcano.
Almeno, a saperla guardare.
Ciò che colpisce R. Barthes nella fotografia della madre, il
punctum, l’irripetibile elemento che
nessuno studium, nessuna analisi, può
comprendere e realizzare, è proprio questo, secondo me, non tanto che la foto
colga un momento nel tempo fissato per sempre, un momento di vita per una
persona ormai morta, ma piuttosto che quella foto colga la permanenza nel tempo
di ogni momento, anche quello. Appare con sgomento il fatto che la madre è
eternamente ciò che è stata, una madre viva prima di esser una madre morta.
Appare cioè il processo che normalmente non percepiamo, come non percepiamo l’inarrestabile
movimento di questo pianeta nel cosmo.
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