Osserviamo tutto, ma siamo incapaci di vedere: proprio nel
momento in cui l’immagine sembra aver sovrastato la parola, proprio oggi che
siamo costantemente bombardati da immagini,
proprio ora che il visivo occupa ogni spazio di comunicazione e di
informazione, ebbene proprio in questo momento ci rendiamo conto che non
sappiamo più veramente guardare, che dobbiamo cioè recuperare lo sguardo, la
capacità di vedere. È proprio per questo che la fotografia diventa, in questo
particolare momento, ancora più importante. Proprio essa che è fra i
responsabili del diluvio d’immagini mute – o almeno afone – che ci stanno
annegando, proprio essa potrebbe essere anche la medicina. A condizione che reimpari a guardare. In fotografia
re-imparare a guardare significa ovviamente recuperare la sensibilità alla luce. Ma non basta, perché – il fotografo lo sa
bene – la luce è anche il luogo dell’assenza e della presenza, ovvero il luogo
della verità. Non si tratta solo di tornare alla fotografia documentaria,
quella che nel secondo dopoguerra ha aperto lo sguardo occidentale alla vastità
del mondo e delle culture e delle realtà e dei disastri e della storia. No, non
solo, si tratta piuttosto di tornare a osservare le cose, gli oggetti, i fatti, nel senso di quei nodi di
relazioni fra cose, persone, gesti, ambienti che costituiscono la nostra vita
quotidiana. Tutto ciò che la fotografia diffusa non vede, perché insegue
soltanto la rappresentazione teatrale della propria identità, invece di
rivolgersi al mondo circostante, cioè quel mondo senza il quale nessuna
identità si costituisce veramente.
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