“La
fotografia dice che c’è del reale, ma non ne certifica l’esistenza, la
prolunga: come un’ombra staccata.” Così Bailly . La fotografia è il vero
“c’è”, l’il y a di Lévinas, la
ripetizione dell’esserci qualcosa. Che
c’è qualcosa, questo dice la fotografia, che c’è, non esattamente cosa, perché ciò che vedo è parziale, è
bidimensionale mentre le cose vere sono tridimensionali, né dove perché non può
dire il quando: spazio e tempo sono connessi, non sono separabili, laddove non
preciso il tempo non posso nemmeno garantire il dove dello spazio. E la
fotografia, che ferma l’istante ripetendolo non dice il tempo vero che è quello
che fluisce, non quello che si ferma, e dunque non può nemmeno garantire sullo
spazio. Che c’è, è tutto quello che
dice. Un il y a neutrale, che
tuttavia è fuori di essa: la sua interiorità è l’esteriorità cui essa è però
stata esposta. La fotografia ha vissuto l’esteriorità, ne è il frutto stesso e
per questo può portarne testimonianza. Ma non può essere una vera prova di qualcosa,
essa testimonia che il mondo è lì, e che noi siamo nel mondo, che esistono mondi,
al plurale, e tempi e spazi, non dice con certezza di un gesto, di un evento, di
un fatto, dice che forse…, ce lo fa pensare, non è la presenza di una realtà che
non è più, è la presenza del mondo come tale. Eppure di fronte ad essa non possiamo
non pensare che il mondo esiste e che gli eventi, i fatti, i gesti, le tragedie,
sono lì fuori davvero, proprio lì. E non possiamo fare a meno di pensarli.
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