Pensare fotograficamente


Dice benissimo Willy Ronis che “l’apparecchio non pensa, è il cervello del fotografo a pensare”; potremmo parafrasare e aggiungere che in fondo la fotografia non mente mai, ma il fotografo sì. Perché è in lui l’obiettivo, è il suo sguardo che costruisce l’immagine in esso si realizza tanto il vero quanto il falso.
Di fronte a questa possibilità la fotografia resta dunque aperta e disponibile: essa può rappresentare il mondo com’è oppure falsificarlo in funzione del modo in cui il fotografo intende realizzare il suo sguardo, del modo in cui intende rapportarsi al suo pubblico, a noi osservatori, per testimoniare, per ingannare, per convincere…
Ma restiamo nella prima possibilità, ovvero che la fotografia sia fedele testimone del mondo, e dunque che obbedisca a una intenzione veritativa del fotografo, alla sua sincerità, c’è un limite che essa incontra e nel quale si gioca tutto il suo valore, tutta la sua necessità, o che viceversa rivela il suo essere banale e superficiale. Lo coglie già Franco Vaccari, quando afferma che “la fotografia è realmente tale se ci aiuta a scoprire quello che non sappiamo invece che a confermarci in quello che già conosciamo”.
Perché se la foto ci mette di fronte a un frammento di mondo che non aggiunge nulla a quanto già sappiamo di esso, allora è una foto debole e poco significativa. Se invece essa, di fronte al mondo che pur conosciamo benissimo, riesce ad aprire uno squarcio inedito, un tratto impensato, un frammento sconosciuto,  una forma, un ritmo, un disegno. Se essa, cioè, approfondisce e sviluppa la nostra conoscenza del mondo allora possiamo ben dire che la fotografia ha compiuto la sua missione più alta. Ma perché ciò accada lo strumento  meccanico e la mente del fotografo devono operare in perfetta sintonia.

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