L’equivoco dell’inconscio
tecnologico sostenuto a partire dagli anni ’70 da Franco Vaccari ma ancora presente
in molti settori della fotografia artistica, si spiega tutto con l’infatuazione
per il discorso psicoanalitico tipica di quella stagione, e con l’eredità di un
concetto di alienazione che proviene
invece dall’ideologia e si sposava allora felicemente con la critica al mondo
della tecnica portata avanti da molti filosofi. Di qui si sviluppava l’idea del pericolo che
la tecnica potesse cancellare l’umanità, e che si trattasse di una forza dotata
di una sua propria autonomia e di una
oscura - inconscia -, una capacità di
guidare i destini del mondo.
L’ingenuità di una proiezione
umana sulla macchina si svela da sola, eppure nel concetto c’è qualcosa di
rilevante, anche se toccato solo di sfioro. È innegabile, infatti, che la
nostra dipendenza dalle macchine e dalle trasformazioni che esse subiscono è
tale per cui non è affatto ingenuo né equivoco affermare che una buona parte
della nostra possibilità di vedere dipende dallo strumento. Non perché esso
possieda un fantomatico inconscio, né perché possieda una propria intelligenza
– ciò che accade solo nei film – ma perché lo strumento tecnico rende possibile
una visione e al contempo rende obsoleta e impropria un’altra visione.
Poter fermare il movimento con
tempi brevissimi, ad esempio, mi consente di cogliere sfumature del mondo prima
quasi invisibili, posso cogliere e fermare quell’attimo decisivo che l’occhio
non è in grado di immortalare. Al contempo, però, la macchina ci disabitua al
contrario a cogliere la lentezza, a coltivare l’attesa, a godere dell’impreciso
e dello sfuocato, che non a caso diventano motivi d’arte. Potendo cogliere
tutto perdiamo la sensibilità necessaria a cogliere l’insieme al di là del dettaglio,
la forma globale, il legame tra soggetti e contesto, l’aura dell’occasione.
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