Nel fotografico, dunque, è
insito il tentativo di fermare l’attimo, produrre l’arrestarsi – impossibile –
del tempo, e così appunto direbbe Severino, tentare di esorcizzare il suo
tragico scivolare nel nulla. O meglio, esorcizzare l’angoscia per quello che è
percepito e vissuto come un cadere nel nulla delle cose. In realtà l’intenzione
è ampiamente disinnescata dal fatto che ogni istante “fermato” diventa a sua
volta oggetto del mondo – la fotografia – e dunque momento dello stesso
processo. Che l’istante si fermi è una illusione un po’ ingenua, in realtà esso
si sfoglia progressivamente nel trascolorare del Processo in ulteriori momenti
che sempre rivivono nel presente in cui stiamo. Al contempo, tuttavia,
l’immagine dell’istante “fermato” obbedisce anche ad un’altra esigenza forse
persino più stringente, quella di costruire una immagine sensata del mondo.
L’immagine del mondo, di un mondo in cui però, ed è l’aspetto più rilevante, il
soggetto sia presente: è il mio mondo, il mondo in cui sono. Un mondo visto
implica sempre un soggetto vedente. La fotografia è la prova che noi esistiamo.
L’istante che fermo non è quello in cui accade qualcosa, ma è prima di tutto
quello in cui io sono lì, io ci sono.
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