Forse esiste solo ciò che è fotografato. Forse se ci chiediamo se qualcosa esiste possiamo rispondere con certezza solo esibendo una bella fotografia. Forse è così che ormai funziona il nostro sistema probatorio ontologico (che le cose esistano) nell'epoca mediatica.
Ci affidiamo come garanzia d'esistenza a una foto che non è altro se non una confusa agglomerazione di sostanze sensibili o di pixel. Eppure è proprio quel tipo di materia che funziona da garanzia ontologica. Allo stesso tempo, tuttavia noi sappiamo, almeno a partire dalle riflessioni di Roland Barthes, che la fotografia ha introdotto una nuova categoria dello spazio-tempo, non l'Esserci, ma l'Esserci-stato, ovvero una congiunzione tra il qui e un tempo, ciò dà alla fotografia un certo qual carattere magico, il potere di rendere presenti le cose assenti, e insieme di rendere vero ontologicamente (esiste!) ciò che in realtà è esistito. E' l'evidenza sorprendente di ciò che appare esistere, anche se la prova che prendiamo per buona non resisterebbe a nessuna seria indagine, eppure per noi è sufficiente. Perchè in fondo - ma non lo ammetteremo tanto facilmente - il nostro rapporto con il mondo che vorremo così rigidamente e solidamente fondato, in fondo non è altro che una miscela di visibile e invisibile, e spesso ci illudiamo, immaginiamo, creiamo, più di quel che saremmo disposti ad ammettere.
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