La complessa natura della fotografia, insieme traccia e rappresentazione, ha portato spesso ad un equivoco, ovvero alla presunzione che essa si possa fare strumento di un "realismo" artistico. Certo è che lo sviluppo storico del naturalismo, del verismo, di tante forme d'arte oggettiva e realistica, appunto, dipende strettamente dalla rivoluzione dello sguardo realizzata a partire dal 1839 dalla diffusione della fotografia. Zola, fotografo, Verga fotografo, Capuana, "giocoliere della camera oscura" per dirla con Sciascia, testimoniano molto bene questo legame storico.
Il punto però è che, a ben guardare, la fotografia non è mai veramente "realistica" - anche se ne ha avuto spesso l'intenzione -, essa infatti non ci mostra la realtà qual è, non ci mostra la realtà quale la vediamo, nella sua oggettività nuda e pura, misurabile e quantificabile, prima di tutto perchè non è in grado di riprodurre la visione tridimensionale che è propria dell'occhio umano, e poi perchè i colori percepiti dall'occhio non sono mai (o quasi) quelli rappresentati dall'immagine fotografica, anzi, per assurdo, la sensazione di maggiore "realismo" si realizza proprio di fronte alla fotografia in bianco e nero che però è quella più falsificante rispetto alla nostra visione naturale. Ma anche sorvolando su tutto questo, anche ipotizzando una fotografia perfettamente rispettosa della visione umana, resta il fatto, insuperabile, che dietro di essa c'è tutto il lavoro del fotografo, che sceglie tempi, obiettivi, diaframma, sensibilità della pellicola, che inquadra, ritaglia, scatta ecc., e questo è proprio un lavoro di "presa di distanza" rispetto alla realtà, rispetto all'immediatezza dell'occhio. Tanto più è presente il fotografo tanto più si apre la distanza dalla realtà delle cose.
L'esser-traccia della fotografia, non è sufficiente a mostrare il mondo sotto forma di oggetto misurabile, e quindi circoscrivibile, definibile, immutabile.
La traccia che è nella fotografia indica una realtà meno realistica di quanto si vorrebbe.
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