Il
rapporto tra la fotografia e il tempo è un problema filosofico rilevante e di
non facile soluzione, come sempre accade ai fenomeni complessi. Da un lato
infatti appare evidente che l’immagine è posta fuori del tempo: ciò che è rappresentato
è lì com’era, e resta sempre così,
l’immagine del bambino ci guarda ora come allora anche se il soggetto
rappresentato è ormai un uomo adulto. Al contempo tuttavia, nessuna immagine è
mai veramente fuori del tempo, sia perché in quanto oggetto è soggetta alla
linea temporale che le appartiene, sia perché anche solo come immagine essa ci
fa vedere qualcosa che è rispetto a noi osservatori sempre posto in un certo
passato, recente o lontano, essa cioè ci
fa vedere il passato, ce lo indica, ce lo fa percepire. (Il passato che scompare inesorabile, sembra fermato nella foto, ma talvolta ci facciamo bastare certe illusioni...). In questo senso
come dice Bailly, il compito della fotografia è proprio quello di “condensare
nella capocchia di spillo dell’istante eternizzato tutta la violenza
irriducibile del passaggio delle ore.” Parafrasando la formula platonica
del tempo, Bailly conclude definendo la fotografia come “una figura immobile
del passaggio del tempo”. È solo uno dei modi possibili per dire questa
contraddizione di cui la fotografia è portatrice, solida configurazione del
tempo, tentativo di bloccare il flusso che non si può fermare, presuntuoso
tentativo di vedere il Processo nel suo svolgimento.
(La
fotografia è un balbettio del tempo, quel battere il passo momentaneo che poi è
cancellato dal fatto che il tempo comunque va avanti e la stessa fotografia che
per un istante lo ha fermato, rientra nel processo come un suo momento,
soggetto a tutte le dinamiche dell’invecchiamento, del destino degli oggetti…).
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