La fotografia è muta. Muta di
parole s’intende, perché ogni immagine in effetti ha il suo modo di comunicare,
e la fotografia in quanto ibrido, in parte traccia ma in parte anche
rappresentazione, non può fare a meno di parlare. Essa può dire la realtà, a meno che non sia volutamente taroccata dal
fotografo o da chi la presenta: il titolo dice “Venere” e la foto mostra una
donna nuda distesa, ma non è il soggetto, la cosa raffigurata, che “finge “ di
essere quel che non è, è soltanto la presunzione di un commentatore, fotografo
o espositore, o editore, che mente sapendo di mentire. In quanto traccia la
fotografia è il frutto di un processo causale e dunque non può mentire, non è
la foto della bandiera issata a Yvo Jima che è falsa, è il soggetto agente, il
fotografo, in questo caso, che mette in scena una ricostruzione. La fotografia
si limita a registrare quella – vera – ricostruzione. Ancora: non so se davvero
quello raffigurato è Baudelaire, forse. Così dice il fotografo, non ho altro
modo di accertarmene, posso solo credergli, se non mente è vero, se mente, non
lo è più. Ma la foto non diventa per questo meno vera, essa ha rappresentato
proprio quell’essere umano, che fosse Baudelaire oppure no.
Proprio perché traccia, la
fotografia esaudisce perfettamente al nostro desiderio di conoscere il mondo,
che non nega affatto, ma anzi ribadisce ogni volta che si presenta, ogni volta
che lo ferma in una istantanea. Così,
ogni lastra, ogni stampa, è forma del mondo, modo di osservarlo, linea del
tessuto di relazioni che costituisce il nostro stesso stare al mondo.
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